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I due si precipitarono giù per le scale. «Dobbiamo mandare un messaggero a sud» disse Malenarin, poi esitò. «No. No, dobbiamo mandare diversi messaggeri. Raddoppiarli. Nell’eventualità che la torre cada.» Ricominciò a muoversi.

I due lasciarono il pozzo delle scale ed entrarono nell’ufficio di Malenarin. Lui prese la sua penna migliore dallo scaffale alla parete. Quella dannata imposta stava muovendosi e sbatacchiando di nuovo; le carte sulla sua scrivania frusciarono mentre tirava fuori un nuovo foglio.

"Rena e Farmay non rispondono ai lampi. Forse sopraffatte o severamente compromesse. Siate avvisati. Heeth resisterà."

Piegò il foglio, porgendolo a Jargen. L’uomo lo prese con una mano coriacea, lo lesse, poi grugnì. «Due copie, allora?»

«Tre» disse Malenarin. «Mobilita gli arcieri e mandali sul tetto. Di’ loro che il pericolo potrebbe arrivare dall’alto.»

Se le sue non erano semplicemente paure infondate, se le torri da entrambi i lati di Heeth erano cadute così in fretta, allora anche quelle a sud potevano essere cadute. E se fosse stato lui a organizzare un assalto, avrebbe fatto tutto il possibile per passare di soppiatto ed eliminare per prima una delle torri meridionali. Quello sarebbe stato il modo migliore per assicurarsi che nessun messaggio arrivasse alla capitale.

Jargen lo salutò, pugno sul petto, poi si ritirò. Il messaggio sarebbe stato inviato immediatamente: tre volte su zampe di cavalli, una volta su gambe di luce. Malenarin si concesse di provare un poco di sollievo per il fatto che suo figlio fosse uno di quelli che avrebbero cavalcato fino a un luogo sicuro. Non c’era disonore in quello: i messaggi dovevano essere recapitati, e Keemlin era il prossimo sul ruolino.

Malenarin lanciò un’occhiata fuori dalla sua finestra. Dava a nord, verso la Macchia. Tutti gli uffici dei comandanti erano orientati a quel modo. La tempesta ribolliva con le sue nubi argentee. A volte sembravano nette figure geometriche. Lui aveva ascoltato bene i mercanti di passaggio. Stavano arrivando tempi travagliati. La regina non sarebbe andata a sud in cerca di un falso Drago, per quanto lui potesse essere astuto o influente. Lei credeva.

Era il tempo di Tarmon Gai’don. E, guardando fuori in quella tempesta, Malenarin pensò di poter vedere la fine stessa dei tempi. Una fine che non era così distante. In effetti, la tempesta pareva diventare più cupa. E c’era un’oscurità sotto di essa, sul terreno a nord.

Quell’oscurità stava avanzando.

Malenarin corse fuori dalla stanza, scattando su per i gradini fino al tetto, dove il vento soffiava contro uomini che spingevano e spostavano specchi.

«È stato mandato il messaggio a sud?» domandò.

«Sì, signore» disse il tenente Landalin. Era stato svegliato per prendere il comando del tetto della torre. «Ancora nessuna risposta.»

Malenarin lanciò un’occhiata in basso e distinse tre cavalieri che si allontanavano dalla torre a tutta velocità. I messaggeri erano partiti. Si sarebbero fermati a Barklan se non fosse stata attaccata. il capitano lì, li avrebbe mandati a sud, per ogni eventualità. E se Barklan fosse già stata sopraffatta, i ragazzi avrebbero proseguito, fino alla capitale se necessario.

Malenarin tornò a guardare la tempesta. Quell’oscurità sempre più vicina lo innervosiva. Stava arrivando.

«Alzate le palizzate» ordinò a Landalin. «Tirate su i ganci del magazzino e svuotate le cantine. Fate radunare ai caricatori tutte le frecce e predisponete delle postazioni per rifornire gli arcieri, e mettete arcieri a ogni collo di bottiglia, feritoia e finestra. Mettete sul fuoco i calderoni e fate in modo che gli uomini si preparino a calare le rampe esterne. Preparatevi per un assedio.»

Mentre Landalin sbraitava ordini, gli uomini si precipitarono via. Malenarin sentì degli stivali raschiare la pietra dietro di lui e si guardò sopra la spalla. Era Jargen che era tornato?

No. Era un ragazzo di quasi quattordici estati, troppo giovane per avere la barba, i capelli scuri scarmigliati, il volto che colava sudore causato — presumibilmente — da una corsa su per i sette piani della torre.

Keemlin. Malenarin provò una fitta di paura, rimpiazzata all’istante dalla rabbia. «Soldato! Dovevi cavalcare con un messaggio!»

Keemlin si morse il labbro. «Be’, signore» disse. «Tian era quattro posti sotto di me. Pesa cinque o anche dieci libbre meno. Fa una grossa differenza, signore. Cavalca molto più velocemente, e io presumevo che questo fosse un messaggio importante. Perciò ho chiesto che venisse mandato lui al mio posto.»

Malenarin si accigliò. I soldati si muovevano attorno a loro, affrettandosi giù per le scale o radunandosi con gli archi al bordo della torre. Fuori il vento ululava e il tuono iniziò a risuonare piano, ma in maniera insistente.

Keemlin incontrò i suoi occhi. «La madre di Tian, lady Yabeth, ha perso quattro figli a causa della Macchia» disse, abbastanza piano perché solo Malenarin potesse sentire. «Tian è l’unico che le rimane. Se uno di noi doveva avere una possibilità di allontanarsi, signore, ho pensato che dovesse essere lui.»

Malenarin sostenne lo sguardo di suo figlio. Il ragazzo sapeva cosa stava per accadere. Che la Luce lo aiutasse, lo sapeva. E aveva mandato via un altro al suo posto.

«Kralle» proruppe Malenarin, lanciando un’occhiata ai soldati che passavano lì accanto.

«Sì, mio lord Comandante?»

«Corri giù fino al mio ufficio» disse Malenarin. «C’è una spada nella mia cassapanca di quercia. Vammela a prendere.»

L’uomo gli rivolse il saluto e obbedì.

«Padre?» disse Keemlin. «Il mio giorno del nome sarà fra tre giorni.»

Malenarin attese con le braccia dietro la schiena. Il suo compito più importante al momento era essere visto al comando, per rassicurare le sue truppe. Kralle tornò con la spada; il suo fodero consumato recava l’immagine della quercia in fiamme. Il simbolo della Casata Rai.

«Padre...» ripete Keemlin. «Io...»

«Quest’arma viene offerta a un ragazzo quando diventa un uomo» disse Malenarin. «Pare che sia arrivata troppo tardi, figlio. Poiché io vedo un uomo in piedi di fronte a me.» Protese l’arma nella sua mano destra. Attorno alla cima della torre, i soldati si voltarono verso di lui: gli arcieri con gli archi pronti, i soldati che azionavano gli specchi, le guardie in servizio. Come uomini delle Marche di Confine, a ciascuno di loro, fino all’ultimo, era stata data la propria spada nel quattordicesimo giorno del nome. Ciascuno aveva provato la stretta al petto, la meravigliosa sensazione di raggiungere la maturità. Era accaduto a ognuno di loro, ma ciò non rendeva quest’occasione meno speciale.

Keemlin si abbassò su un ginocchio.

«Perché estrai la spada?» chiese Malenarin, a voce alta in modo che ogni uomo in cima alla torre udisse.

«In difesa del mio onore, della mia famiglia o della mia patria» rispose Keemlin.

«Fin quando combatti?»

«Finché il mio ultimo respiro non si unisce ai venti del Nord.»

«Quando smetti di vigilare?»

«Mai» sussurrò Keemlin.

«Più forte!»

«Mai!»

«Una volta estratta la spada, diventerai un guerriero, e l’avrai sempre vicino a te, pronto a combattere l’Ombra. Estrarrai questa lama e ti unirai a noi, come un uomo?»

Keemlin alzò lo sguardo, poi prese l’elsa in una stretta ferma e liberò la spada dal fodero.

«Alzati come un uomo, figlio mio!» dichiarò Malenarin.

Keemlin si alzò, tenendo sollevata l’arma, la lama splendente che rifletteva la luce diffusa. Gli uomini in cima alla torre esultarono.

Non era una vergogna trovare lacrime negli occhi di un uomo in un momento del genere. Malenarin sbatté le palpebre per scacciarle, poi si inginocchiò, allacciando la cintura portaspada alla vita di suo figlio. Gli uomini continuarono a urlare ed esultare, e lui seppe che non era solo per suo figlio. Gridavano per sfidare l’ombra. Per un momento, le loro voci risuonarono più forti del tuono.