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Malenarin si rialzò in piedi, appoggiando una mano sulla spalla di suo figlio mentre il ragazzo faceva scivolare la sua spada dal fodero.

Assieme si voltarono per affrontare l’Ombra che stava arrivando.

«“Là!”» disse uno degli arcieri, indicando verso l’alto. «C’è qualcosa nelle nuvole!»

«Draghkar!» disse un altro.

Quelle nuvole innaturali adesso erano vicine, e l’ombra che proiettavano non poteva più nascondere l’orda ondeggiante di Trolloc al di sotto. Qualcosa spuntò dal cielo volando, ma una dozzina dei suoi arcieri scagliò. La creatura urlò e cadde, ali scure che sbattevano goffe.

Jargen si fece strada a spintoni fino a Malenarin. «Mio signore,» disse, scoccando un’occhiata a Keemlin «il ragazzo dovrebbe essere da basso.»

«Non è più un ragazzo» disse Malenarin con orgoglio. «È un uomo. Qual è il tuo rapporto?»

«Tutto è predisposto.» Jargen lanciò un’occhiata oltre il muro, fissando i Trolloc in arrivo con calma, come se stesse ispezionando una stalla di cavalli. «Scopriranno che questo albero non è così facile da abbattere.»

Malenarin annuì. La spalla di Keemlin era tesa. Quel mare di Trolloc sembrava sconfinato. Contro questo nemico, la torre alla fine sarebbe caduta. I Trolloc sarebbero continuati ad arrivare, un’ondata dopo l’altra.

Ma ogni uomo in cima a quella torre conosceva il proprio compito. Avrebbero ucciso Progenie dell’Ombra finché avessero potuto, sperando di guadagnare abbastanza tempo perché i messaggi potessero essere di qualche utilità.

Malenarin era un uomo delle Marche di Confine, proprio come suo padre, proprio come suo figlio accanto a lui. Conoscevano il loro compito. Resistevi finché non venivi sollevato dall’incarico.

E questo era quanto.

1

Prima le mele

La Ruota del Tempo gira e le Epoche si susseguono, lasciando ricordi che divengono leggenda. La leggenda sbiadisce nel mito, ma anche il mito è ormai dimenticato quando ritorna l’Epoca che lo vide nascere. In un’Epoca chiamata da alcuni Epoca Terza, un’Epoca ancora a venire, un’Epoca da gran tempo trascorsa, il vento si levò attorno ai picchi nebbiosi di Imfaral.

Il vento non era l’inizio. Non c’è inizio né fine al girare della Ruota del Tempo. Ma fu comunque un inizio.

Leggero e fresco, il vento danzò per campi di nuova erba montana rigida per il gelo. Quel gelo indugiava dopo le prime luci, riparato dalle onnipresenti nubi sospese come una maschera di morte lì in alto. Erano passate settimane da quando quelle nubi si erano mosse, e l’erba morta e ingiallita lo dimostrava.

Il vento rimestò la foschia mattutina, muovendosi a sud, raggelando un piccolo branco di torm. Erano stesi su un piatto ripiano di granito punteggiato di licheni, attendendo di crogiolarsi nel sole mattutino che non sarebbe arrivato. Il vento si riversò oltre il ripiano, scorrendo giù per le pendici di una collina ricoperta da contorti alberi di mura, con corteccia simile a una fune e ciuffi verdi di spesse foglie simili ad aghi in cima a essi.

Alla base delle colline, il vento svoltò a est, superando una pianura aperta mantenuta sgombra da alberi e sterpaglie dalle asce dei soldati. Il campo di battaglia circondava tredici fortezze, alte e intagliate completamente da marmo nero non levigato, i loro blocchi lasciati grezzi per conferire una sensazione primitiva di forza informe. Queste erano torri fatte per la guerra.

Per tradizione erano vuote. Restava da vedere quanto questo sarebbe durato, per quanto tempo la tradizione stessa sarebbe stata ricordata in un continente nel caos.

Il vento proseguì a est, e presto stava giocando con gli alberi di navi semibruciate ai moli di Takisrom. Al largo nella Baia Dormiente superò gli attaccanti: enormi galeoni con le vele dipinte di color rosso sangue. Erano diretti a sud, dopo aver portato a termine il proprio macabro compito.

Il vento soffiò di nuovo sulla terra, oltre cittadine e villaggi in fiamme, pianure aperte colme di truppe e porti traboccanti di navi da guerra. Fumo, urla di battaglia e stendardi volavano sopra l’erba morente e un cielo fosco da capitano di porto.

Gli uomini non sussurravano che questa poteva essere la fine dei tempi. Lo urlavano. I Campi di Pace erano in fiamme, la Torre dei Corvi era spezzata come profetizzato e un assassino governava apertamente a Seandar. Questo era il momento di levare la propria spada e scegliere da che parte stare, poi versare sangue per dare un ultimo tocco di colore alla terra morente.

Il vento ululò a est sopra le celebri Scogliere di Smeraldo e procedette sopra l’oceano. Dietro, del fumo pareva levarsi dall’interno continente di Seanchan.

Per ore il vento soffiò, diventando quello che in un’altra Epoca sarebbe stato chiamato aliseo, vorticando tra onde scure e misteriose, con le loro creste bianche. Alla fine, il vento incontrò un altro continente, questo silenzioso come un uomo che trattenesse il respiro prima del calare della scure del boia.

Quando il vento raggiunse l’enorme montagna dalla vetta spezzata nota come Montedrago, aveva perso buona parte della propria forza. Passò attorno alla base della montagna, poi attraverso un grande meleto, illuminato dalla luce del primo pomeriggio. Le foglie un tempo verdi erano sbiadite fino al giallo.

Il vento superò un basso recinto di legno, legato ai raccordi da spago di lino marrone chiaro. Lì c’erano due figure: un giovane e un uomo tetro in età avanzata. L’uomo più anziano indossava un paio di lisi pantaloni bruni e un’ampia camicia bianca con bottoni di legno. Il suo volto era così solcato da rughe da sembrare simile alla corteccia degli alberi.

Almen Bunt non sapeva molto sui frutteti. Oh, aveva piantato alcuni alberi nella sua fattoria nell’Andor. Chi non aveva un albero o due per riempire lo spazio sulla tavola da pranzo? Aveva piantato un paio di alberi di noce il giorno in cui aveva sposato Adrinne. Gli era sembrato bello avere i suoi alberi lì, fuori dalla finestra, dopo che lei era morta.

Gestire un frutteto era qualcosa di completamente diverso. C’erano quasi trecento alberi in questo campo. Era il frutteto di sua sorella; lui era lì in visita mentre i suoi figli gestivano la sua fattoria vicino Carysford.

Nella tasca della camicia, Almen portava una lettera dei suoi figli. Una lettera disperata, che implorava aiuto, ma lui non poteva andare da loro. Era necessario qui. Inoltre era un buon momento perché stesse fuori dall’Andor. Era un uomo della regina. C’erano stati tempi, di recente, in cui essere un uomo della regina poteva far finire nei guai una persona quanto avere troppe mucche nel proprio pascolo.

«Cosa facciamo, Almen?» chiese Adim. «Quegli alberi... Be’, non dovrebbe succedere così.» Il ragazzo tredicenne aveva capelli biondi, ereditati dal ramo paterno.

Almen si sfregò il mento, grattando un paio di peli che gli erano sfuggiti nel radersi. Hahn, il fratello maggiore di Adim, si avvicinò a loro. Il ragazzo aveva intagliato ad Almen un completo di denti di legno come dono per il suo arrivo all’inizio della primavera. Cose meravigliose, tenute insieme da fili di ferro, con dei buchi per i pochi denti che gli rimanevano. Ma se masticava troppo forte, perdevano tutta la loro forma.

I filari di meli erano dritti e perfettamente intervallati. Graeger — il cognato di Almen — era sempre stato meticoloso. Ma adesso era morto, motivo per cui Almen era venuto. Le ordinate file di alberi continuavano per spanne e spanne, attentamente potate, fertilizzate e irrigate.

E durante la notte ciascuno di essi aveva dato i propri frutti. Mele minuscole, a malapena grandi quanto il pollice di un uomo. A migliaia. Si erano raggrinzite durante la notte, poi erano cadute. Un intero raccolto perduto.

«Non so che dire, ragazzi» ammise infine Almen.