«Vedremo» disse lei.
«Faile.» Lui sospirò e abbassò la voce. «Un uomo deve vedere una cosa per quello che è. Non ha senso chiamare una fibbia cardine oppure chiamare un chiodo ferro di cavallo. Te l’ho detto: non sono un buon capo. L’ho dimostrato.»
«Non è così che la vedo io.»
Perrin strinse il rompicapo del fabbro nella tasca. Avevano discusso di questo nel corso delle settimane da quando avevano lasciato Malden, ma lei rifiutava di vedere la ragione. «L’accampamento era un caos mentre tu non c’eri, Faile! Ti ho detto come Arganda e le Fanciulle si sono quasi uccisi tra loro. E Aram... Masema l’ha corrotto proprio sotto il mio naso. Le Aes Sedai portavano avanti giochi che non riesco a immaginare, e gli uomini dei Fiumi Gemelli... lo vedi come mi guardano con gli occhi pieni di vergogna.»
L’odore di Faile ebbe una punta di rabbia quando Perrin disse quello, e lei si voltò bruscamente verso Berelain.
«Non è colpa sua» disse Perrin. «Se fossi stato in grado di pensarci, avrei fermato le voci sul nascere. Ma non l’ho fatto. Ora devo dormire nel letto che ho fatto per me stesso. Luce! Cos’è un uomo se i suoi vicini non pensano bene di lui? Non sono un lord, Faile, e questo è quanto. L’ho dimostrato decisamente.»
«Strano» disse lei. «Ma ho parlato con gli altri e loro raccontano una storia diversa. Dicono che hai contenuto Arganda e hai sedato scoppi di violenza nel campo. Poi c’è l’alleanza con i Seanchan; più ne sento parlare, più sono impressionata. Hai agito con decisione in un momento di grande incertezza, hai concentrato gli sforzi di tutti e hai realizzato l’impossibile nel prendere Malden. Queste sono le azioni di un capo.»
«Faile...» disse lui, reprimendo un grugnito. Perché lei non voleva ascoltare? Quando era stata prigioniera, per lui niente aveva avuto importanza tranne recuperare lei. Niente. Non aveva avuto importanza chi aveva avuto bisogno del suo aiuto o quali ordini gli erano stati dati. Tarmon Gai’don stesso poteva cominciare e lui l’avrebbe ignorato per trovare Faile.
Ora si rendeva conto di quanto erano state pericolose le sue azioni. Il problema era che avrebbe ripetuto quelle stesse azioni di nuovo. Non rimpiangeva quello che aveva fatto, nemmeno per un momento. Un capo non poteva essere così.
Non avrebbe mai dovuto lasciare che innalzassero quello stendardo con la testa di lupo fin dall’inizio. Ora che aveva completato i suoi compiti, ora che Faile era di nuovo con lui, era il momento di mettere tutta quella follia dietro di sé. Perrin era un fabbro. Non aveva importanza come lo vestiva Faile o che titoli gli dava la gente. Non potevi trasformare un coltello a petto in un ferro di cavallo dipingendolo oppure chiamandolo in modo diverso.
Si voltò da una parte, dove Jori Congar cavalcava davanti alla colonna, con quel dannato stendardo rosso con la testa di lupo che sventolava fiero da un’asta più alta della lancia di un cavaliere. Perrin aprì la bocca per gridargli di tirarlo giù, ma improvvisamente Faile parlò.
«Sì, proprio così» disse lei meditabonda. «Ho riflettuto su questo per le ultime settimane e, per strano che possa sembrare, credo che la mia prigionia possa essere stato precisamente quello di cui avevamo bisogno. Entrambi.»
Cosa? Perrin si voltò verso di lei, fiutando il suo essere pensierosa. Lei credeva in quello che aveva detto.
«Ora,» disse Faile «dobbiamo parlare di...»
«Stanno tornando gli esploratori» disse lui, forse più improvvisamente di quanto intendeva. «Ci sono Aiel più avanti.»
Faile lanciò un’occhiata mentre lui indicava, ma ovviamente non poteva vedere ancora nulla. Lei sapeva dei suoi occhi, però. Era una dei pochi.
Voci si levarono quando altri notarono le tre figure con il cadin’sor avvicinarsi lungo la strada, quelli che Perrin aveva mandato in esplorazione. Due Fanciulle si affrettarono dalle Sapienti e una si diresse verso Perrin.
«C’è qualcosa accanto alla strada, Perrin Aybara» disse la donna. Odorava di preoccupazione. Quello era un segnale pericoloso. «È qualcosa che vorrai vedere.»
Galad si svegliò al frusciare di un lembo della tenda. Aveva forti bruciori al fianco nel punto in cui era stato preso a calci ripetutamente; facevano il paio con i suoi dolori più sordi a spalla, braccio sinistro e coscia dove era stato ferito da Valda. La sua emicrania martellante era quasi abbastanza forte da smorzare tutto il resto.
Gemette, rotolando sulla schiena. Tutto era buio attorno a lui, ma dei punticini luminosi brillavano nel cielo. Stelle? Il cielo era stato coperto per così tanto tempo.
No... c’era qualcosa di sbagliato in esse. La testa gli pulsava dal dolore e delle lacrime gli sgorgarono dagli angoli degli occhi. Quelle stelle sembravano così fioche, così distanti. Non formavano nessun disegno familiare. Dove poteva averlo mai portato Asunawa, tanto che perfino le stelle erano diverse?
Mentre la sua mente si schiariva, iniziò a distinguere i dintorni. Questa era una tenda pesante per dormire, fatta per essere buia durante le ore diurne. Le luci sopra di lui non erano affatto stelle, ma luce solare che penetrava attraverso l’occasionale forellino nella tela causato dall’usura.
Era ancora nudo e, con dita esitanti, stabilì che c’era sangue secco sulla sua faccia. Era fuoriuscito da un lungo taglio sulla sua fronte. Se non l’avesse lavato presto, era probabile che si infettasse. Era steso sulla schiena, e inspirava ed espirava con cautela. Se prendeva troppa aria tutta assieme, il suo fianco urlava.
Galad non temeva la morte o il dolore. Aveva compiuto le scelte giuste. Era un peccato che avesse dovuto lasciare gli Inquisitori al comando; erano controllati dai Seanchan. Comunque, non c’era stata nessun’altra opzione, non dopo che si era praticamente messo nelle mani di Asunawa.
Galad non provava alcun astio verso gli esploratori che lo avevano tradito. Gli Inquisitori erano una valida fonte di autorità tra i Figli e senza dubbio le loro menzogne erano state convincenti. No, quello con cui era adirato era Asunawa, che prendeva quello che era vero e lo infangava. C’erano molti che lo facevano al mondo, ma i Figli sarebbero dovuti essere diversi.
Presto gli Inquisitori sarebbero venuti per lui e allora il vero prezzo per salvare i suoi uomini sarebbe stato esatto con i loro uncini e coltelli. Era stato consapevole di quel prezzo quando aveva preso la sua decisione. In un certo senso aveva vinto, poiché aveva manipolato la situazione nel modo migliore.
L’altro modo per assicurare la sua vittoria era attenersi alla verità sotto il loro interrogatorio. Negare di essere un Amico delle Tenebre fino al suo ultimo respiro. Sarebbe stato difficile, ma sarebbe stato giusto.
Si costrinse a mettersi a sedere, aspettandosi — e sopportando — le vertigini e la nausea. Tastò attorno a sé. Le sue gambe erano incatenate assieme, e quella catena era assicurata a un grosso chiodo che era stato conficcato in profondità nel terreno, penetrando il ruvido pavimento di tela della tenda.
Cercò di strattonarlo via, per non lasciare nulla di intentato.
Tirò così forte che i suoi muscoli cedettero e per poco non svenne. Una volta ripresosi, strisciò fino al lato della tenda. Le sue catene gli davano abbastanza gioco da raggiungere i lembi. Prese uno dei legacci di stoffa — usati per tenere su i lembi quando erano aperti — e vi sputò sopra. Poi, in modo metodico, si pulì via la sporcizia e il sangue dalla faccia.
Quella pulizia gli diede uno scopo, lo tenne in movimento e gli diede modo di non pensare al dolore. Strofinò via con cautela il sangue incrostato da guancia e naso. Era difficile; aveva la bocca secca. Si morse la lingua per ottenere della saliva. I legacci non erano di tela, ma di un materiale più leggero. Odoravano di polvere.