Una forma si schiantò contro di lui, gettandolo indietro tra la boscaglia. Giovane Toro scosse il capo, stordito, ringhiando. Un altro lupo l’aveva fermato. Hopper! Perché?
Il cervo balzò in piedi e riprese a saltellare via per la foresta. Giovane Toro ululò di rabbia e furia, preparandosi a corrergli dietro. Di nuovo Hopper saltò, scagliando il suo peso contro Giovane Toro.
Se muore qui, muore l’ultima morte, trasmise Hopper. Questa caccia è finita, Giovane Toro. Cacceremo un’altra volta.
Giovane Toro quasi si voltò per attaccare Hopper. Ma no. Ci aveva provato una volta ed era stato un errore. Lui non era un lupo. Lui...
Perrin era steso a terra, sentiva il sapore di sangue che non era il suo, espirava profondamente, il suo volto che colava sudore. Si spinse in ginocchio, poi si mise a sedere, ansimando, scosso per quella caccia bellissima, terrificante.
Gli altri lupi si sedettero, ma non parlarono. Hopper si stese accanto a Perrin, posando la sua testa grigia su zampe attempate.
«Questo» disse infine Perrin «è ciò che temo.»
No, tu non lo temi, trasmise Hopper.
«Mi stai dicendo quello che provo?»
Non odori di paura, trasmise Hopper.
Perrin si stese all’indietro, alzando lo sguardo verso i rami sopra la sua schiena, rametti e foglie che si accartocciavano sotto di lui. Il cuore gli palpitava per la caccia. «Mi preoccupo di questo, allora.»
Preoccuparsi non è lo stesso di avere paura, inviò Hopper. Perché dici uno e provi l’altro? Preoccuparsi, preoccuparsi, preoccuparsi. È tutto quello che fai.
«No. Uccido anche. Se hai intenzione di insegnarmi a dominare il sogno del lupo, avverrà così?»
Sì.
Perrin guardò da un lato. Il sangue del cervo si era versato su un tronco secco, l’oscurità che filtrava nel legno. Imparare a questo modo lo avrebbe spinto fino al limite stesso di diventare un lupo.
Ma aveva evitato questo problema troppo a lungo, facendo ferri di cavallo nella forgia mentre lasciava da parte, non toccati, i pezzi più difficili e impegnativi. Faceva affidamento sui poteri dell’olfatto che gli erano stati dati, protendendosi con la mente a chiamare i lupi quando aveva bisogno di loro... ma altrimenti li aveva ignorati.
Non potevi fare una cosa finché non ne comprendevi le parti. Perrin non avrebbe saputo come affrontare — o rifiutare — il lupo dentro di lui finché non avesse compreso il sogno del lupo.
«Molto bene» disse Perrin. «E sia.»
Galad conduceva Robusto al piccolo galoppo attraverso l’accampamento. Da tutti i lati, i Figli montavano tende e scavavano buche per il fuoco. I suoi uomini marciavano quasi fino all’imbrunire ogni giorno, poi si svegliavano al mattino presto. Prima avessero raggiunto l’Andor, meglio sarebbe stato.
Quelle maledette paludi erano alle loro spalle; ora viaggiavano su distese erbose aperte. Forse sarebbe stato più veloce tagliare a est e prendere una delle grandi strade verso nord, ma quello non sarebbe stato sicuro. Meglio tenersi alla larga dai movimenti degli eserciti del Drago Rinato e dei Seanchan. La Luce avrebbe brillato sui Figli, ma più di un eroe valoroso era morto in quella Luce. Se non c’era pericolo di morte, non poteva esserci valore, ma Galad avrebbe preferito che la Luce splendesse su di lui mentre continuava a vivere.
Si erano accampati vicino alla strada di Jehannah e l’avrebbero attraversata al mattino per proseguire a nord. Aveva inviato una pattuglia per sorvegliare la strada. Voleva sapere che genere di traffico stava attirando quella via e aveva particolarmente bisogno di provviste.
Galad continuò i suoi giri per il campo, accompagnato da una mandata di attendenti a cavallo, ignorando i dolori delle sue varie ferite. L’accampamento era curato e ordinato. Le tende erano raggruppate per legione, poi disposte a formare anelli concentrici senza alcun percorso dritto. Quello era fatto per confondere e rallentare degli assalitori.
Una sezione del campo vicino al centro era vuota. Un buco nella formazione dove una volta gli Inquisitori avevano eretto le loro tende. Lui aveva ordinato che gli Inquisitori si sparpagliassero, due assegnati a ciascuna compagnia. Se gli Inquisitori non fossero stati separati dagli altri, forse avrebbero provato maggiore affinità con gli altri Figli. Galad prese nota mentalmente di disegnare una nuova disposizione per il campo, eliminando quel buco.
Galad e i suoi compagni continuarono attraverso l’accampamento. Cavalcava per essere visto, e gli uomini gli rivolgevano il saluto al suo passaggio. Ricordava bene le parole che Gareth Bryne aveva detto una volta: buona parte del tempo, la funzione più importante di un generale non era prendere decisioni, ma ricordare agli uomini che qualcuno avrebbe preso delle decisioni.
«Mio lord Capitano Comandante» disse uno dei suoi compagni. Brandel Vordarian. Era un uomo attempato, più anziano dei lord Capitani che servivano sotto Galad. «Vorrei che ripensassi ad inviare quella missiva.»
Vordarian cavalcava proprio accanto a Galad, con Trom dall’altro lato. I lord Capitani Golever e Hamesh cavalcavano dietro, a portata d’udito, e Bornhald seguiva, fungendo da guardia del corpo di Galad per la giornata.
«La lettera deve essere inviata» disse Galad.
«Pare avventato, mio lord Capitano Comandante» continuò Vordarian. Rasato, con argento che gli tingeva i capelli dorati, l’Andorano era un omone squadrato. Galad conosceva vagamente la famiglia di Vordarian, dei nobili minori che erano stati coinvolti nella corte di sua madre.
Solo uno sciocco rifiutava di ascoltare i consigli di quelli più vecchi e saggi di lui. Ma solo uno sciocco accettava tutti i consigli che gli venivano dati.
«Forse avventato» replicò Galad. «Ma è la cosa giusta da fare.» La lettera era indirizzata agli Inquisitori e ai Figli ancora sotto il controllo dei Seanchan; ci sarebbe stato qualcuno che non era venuto con Asunawa. Nella lettera, Galad spiegava quello che era successo e ordinava loro di presentarsi a rapporto da lui non appena possibile. Era improbabile che qualcuno sarebbe venuto, ma gli altri avevano diritto di conoscere l’accaduto.
Lord Vordarian sospirò, poi fece spazio quando Hamesh accostò il suo cavallo a quello di Galad. L’uomo calvo si grattò distrattamente la pelle sfregiata dove c’era stato il suo orecchio sinistro. «Basta con questa lettera, Vordarian. Il modo in cui continui a parlarne mette alla prova la mia pazienza.» Per come la vedeva Galad, c’erano molte cose che mettevano alla prova la pazienza del Murandiano.
«Hai altre questioni di cui desideri discutere, presumo?» Galad annuì a un paio di Figli che tagliavano dei tronchi, che interruppero il loro lavoro per rivolgergli il saluto.
«Hai detto al Figlio Bornhald, al Figlio Byar e ad altri che progetti di farci alleare con le streghe di Tar Valon!»
Galad annuì. «Capisco che l’idea possa essere preoccupante, ma se ci rifletti, capirai che è l’unica decisione giusta.»
«Ma le streghe sono malvagie!»
«Forse» disse Galad. Una volta avrebbe potuto negarlo. Ma ascoltare gli altri Figli e considerare ciò che quelle a Tar Valon avevano fatto a sua sorella lo stava inducendo a pensare che potesse essere stato troppo morbido con le Aes Sedai. «Comunque, lord Hamesh, se sono malvagie, sono insignificanti paragonate al Tenebroso. L’Ultima Battaglia sta arrivando. Neghi forse questo?»
Hamesh e gli altri alzarono lo sguardo verso il cielo. Quella tetra coltre di nubi durava ormai da settimane. Il giorno prima, un altro uomo era caduto preda di una strana malattia che gli aveva fatto uscire scarafaggi dalla bocca quando tossiva. Le loro riserve di cibo stavano diminuendo man mano che scoprivano che se n’era guastato sempre più.
«No, non lo nego» borbottò Hamesh.