Al’Thor aveva mandato lì dentro Ramshalan aspettandosi che fosse catturato, aspettandosi che gli venisse messa la Coercizione. L’unico scopo di Ramshalan era fornire ad al’Thor la conferma che Graendal era nella torre.
Luce! Quanto è diventato scaltro.
Lasciò andare il Vero Potere e abbracciò il meno meraviglioso saidar. Presto! Era così turbata che il suo abbraccio per poco non fallì. Stava sudando.
Via. Doveva andar via.
Aprì un nuovo passaggio. Aran’gar si voltò, fissando attraverso le pareti in direzione di al’Thor. «Così tanto Potere! Cosa sta facendo?»
Aran’gar. Lei e Delana avevano intessuto i flussi della Coercizione.
Al’Thor doveva ritenere morta Graendal. Se avesse distrutto quel posto e quelle Coercizioni fossero rimaste, al’Thor avrebbe saputo di aver fallito e che Graendal era viva.
Graendal formò due scudi e li sbatté al loro posto, uno per Aran’gar e uno per Delana. Le due donne annasparono. Graendal legò i flussi e bloccò le due con Aria.
«Graendal?» disse Aran’gar, la voce colma di panico. «Cosa stai...»
Stava arrivando. Graendal balzò verso il passaggio e lo attraversò rotolando, ruzzolando e strappandosi i vestito con un ramo. Una luce abbagliante sorse dietro di lei. Fece uno sforzo per chiudere il passaggio e colse un’occhiata della terrorizzata Aran’gar prima che tutto lì dietro fosse consumato da un biancore puro e meraviglioso.
Il passaggio svanì, lasciando Graendal nell’oscurità.
Giacque col cuore che batteva a terribile velocità, quasi accecata dal bagliore. Aveva creato il passaggio più rapido possibile, uno che l’aveva condotta solo a poca distanza. Era stesa tra le sterpaglie sporche in cima a una sporgenza dietro il palazzo.
Una sensazione sbagliata si riversò su di lei come un’onda, una deformazione nell’aria, il Disegno stesso che si increspava. Un urlo malefico era chiamato: un momento in cui la creazione stessa strillava di dolore.
Inspirò ed espirò, tremante. Ma doveva vedere. Doveva sapere. Si alzò in piedi, la caviglia sinistra storta. Zoppicò fino al limitare degli alberi e guardò giù.
Collina di Natrin — l’intero palazzo — non c’era più. Era stata arsa via dal Disegno. Graendal non riusciva a vedere al’Thor su quel costone distante, ma sapeva dov’era.
«Tu» ringhiò. «Tu sei diventato molto più pericoloso di quanto avevo previsto.»
Centinaia di uomini e donne, i più attraenti che aveva radunato, scomparsi. La sua fortezza, dozzine di oggetti di Potere, il suo più grande alleato fra i Prescelti. Scomparsi. Era un disastro.
No, pensò. Io sono viva.
L’aveva anticipato, anche se solo di qualche momento. Ora lui l’avrebbe ritenuta morta.
All’improvviso era più al sicuro di quanto fosse mai stata dopo essere sfuggita alla prigione del Signore Supremo. Tranne, naturalmente, che aveva appena causato la morte di uno dei Prescelti. Il Signore Supremo non ne sarebbe stato compiaciuto.
Zoppicò via dalla sporgenza, già pianificando la sua mossa successiva. Questa faccenda andava gestita con molta, moltissima attenzione.
Galad Damodred, lord Capitano Comandante dei Figli della Luce, strattonò via il suo stivale dal fango alto fino alla caviglia con un suono gorgogliante.
Dei mordimi ronzavano nell’aria afosa. La puzza di fango e acqua stagnante minacciava di soffocarlo a ogni respiro mentre conduceva il suo cavallo a un terreno più asciutto sul sentiero. Dietro di lui arrancava una lunga colonna serpeggiante larga quattro uomini, ciascuno inzaccherato, sudato e stanco quanto lo era lui.
Erano al confine tra il Ghealdan e l’Altara, in una terra acquitrinosa dove querce e alberi-spezia avevano ceduto il passo ad allori e cipressi filiformi, le cui radici contorte si estendevano come dita esili. L’aria maleodorante era calda — malgrado l’ombra e la copertura delle nuvole — e densa. Era come respirare dentro una pessima zuppa. Galad sudava copiosamente sotto la corazza e la maglia, il suo elmo conico che pendeva dalla sella, la pelle che gli prudeva per la sporcizia e l’acqua salmastra.
Per quanto fosse deprimente, questa era la strada migliore. Asunawa non l’avrebbe prevista. Galad si asciugò la fronte con il dorso della mano e cercò di camminare a testa alta a beneficio di coloro che lo seguivano. Settemila uomini, Figli che avevano scelto lui piuttosto che gli invasori Seanchan.
Del muschio verde smorto pendeva dai rami, afflosciato come brandelli di carne da cadaveri in decomposizione. Qua e là i verdi e i grigi malaticci erano ravvivati da un vivido scoppio di minuscoli fiori rosa e violetto che crescevano a grappoli attorno a dei torrentelli. Il loro improvviso colore era inatteso, come se qualcuno avesse spruzzato delle gocce di vernice sul terreno.
Era strano trovare bellezza in questo posto. Poteva trovare anche la Luce nella sua stessa situazione? Temeva che non sarebbe stato facile.
Strattonò Robusto in avanti. Poteva sentire conversazioni preoccupate da dietro. Questo posto, con la sua puzza e le punture di insetti, avrebbe messo alla prova i migliori tra gli uomini. Quelli che seguivano Galad erano turbati da ciò che il mondo stava diventando. Un mondo dove il cielo era costantemente ammantato di nero, dove uomini buoni morivano per bizzarri stravolgimenti del Disegno, e dove Valda — il lord Capitano Comandante prima di Galad — si era rivelato un assassino e uno stupratore.
Galad scosse il capo. L’Ultima Battaglia sarebbe giunta presto.
Un tintinnio di cotta di maglia annunciò qualcuno che stava risalendo la fila. Galad lanciò un’occhiata sopra la propria spalla mentre Dain Bornhald arrivava, gli rivolgeva il saluto e si accostava a lui. «Damodred,» disse Dain piano, i loro stivali che sciaguattavano nel fango «forse dovremmo tornare indietro.»
«Indietro conduce solo al passato» disse Galad, esaminando il sentiero davanti a loro. «Ci ho pensato molto, Figlio Bornhald. Questo cielo, la desolazione della terra, il modo in cui i morti camminano... Non c’è più tempo di trovare alleati e combattere contro i Seanchan. Dobbiamo marciare verso l’Ultima Battaglia.»
«Ma questa palude» disse Bornhald, guardando da un lato mentre un grosso serpente strisciava attraverso il sottobosco. «Le nostre mappe dicono che ormai dovremmo esserne fuori.»
«Allora sicuramente siamo vicino al bordo.»
«Forse» disse Dain, un rivoletto di sudore che gli colava dalla fronte lungo il lato del suo volto magro, che si contrasse. Per fortuna aveva terminato l’acquavite alcuni giorni prima. «Sempre che la mappa non sia in errore.»
Galad non rispose. Mappe un tempo buone si stavano rivelando fallaci, di questi tempi. Campi aperti si trasformavano in colline spezzate, villaggi scomparivano, i pascoli un giorno erano arabili, poi all’improvviso erano soffocati da rampicanti e funghi. La palude poteva davvero essersi estesa.
«Gli uomini sono esausti» disse Bornhald. «Sono brave persone... sai che lo sono. Ma stanno cominciando a lamentarsi.» Sussultò, aspettandosi un rimprovero da Galad.
Forse una volta lui l’avrebbe redarguito. I Figli dovevano sopportare con orgoglio ciò che li affliggeva. Però i ricordi delle lezioni che Morgase gli aveva impartito — lezioni che da giovane non aveva capito — lo tormentavano. Guida tramite l’esempio. Esigi forza, ma prima mostrala.
Galad annuì. Si stavano avvicinando a una radura asciutta. «Raduna gli uomini. Parlerò con quelli davanti. Fa’ registrare le mie parole perché vengano trasmesse a quelli dietro.»
Bornhald parve perplesso, ma fece come gli era stato ordinato. Galad si spostò da un lato, arrampicandosi su una collinetta. Posò la mano sull’elsa della sua spada, passando in rassegna gli uomini mentre le compagnie più avanzate si radunavano attorno. Se ne stavano con posture ingobbite, le gambe infangate. Le mani scacciavano mordimi o si grattavano il colletto.