Tu sei colei che l'umana natura
nobilitasti sì, che il suo fattore
non si sdegnò di farsi tua fattura.
Con molte altre figure et invenzioni delle quali non accade altro dire. Dopo, seguitandosi intanto di scrivere il detto libro e ridurlo a buon termine, feci in S. Francesco d'Arimini all'altar maggiore una tavola grande a olio, con un S. Francesco che riceve da Cristo le stimate nel monte della Vernia, ritratto dal vivo; ma perché quel monte è tutto di massi e pietre bigie, e similmente S. Francesco et il suo compagno si fanno bigi, finsi un sole, dentro al quale è Cristo con buon numero di Serafini, e così fa l'opera variata, et il Santo con altre figure tutto lumeggiato dallo splendore di quel sole, et il paese aombrato dalla varietà d'alcuni colori cangianti, che a molti non dispiacciono, et allora furono molto lodati dal cardinale Capodiferro, legato della Romagna. Condotto poi da Rimini a Ravenna, feci come in altro luogo s'è detto una tavola nella nuova chiesa della Badia di Classi dell'Ordine di Camaldoli, dipignendovi un Cristo deposto di croce in grembo alla Nostra Donna; e nel medesimo tempo feci per diversi amici molti disegni, quadri, et altre opere minori che sono tante e sì diverse, che a me sarebbe difficile il ricordarmi pur di qualche parte, et a' lettori forse non grato udir tante minuzie.
Intanto essendosi fornita di murare la mia casa d'Arezzo, et io tornatomi a casa, feci i disegni per dipignere la sala, tre camere e la facciata, quasi per mio spasso di quella state. Nei quali disegni feci fra l'altre cose tutte le provincie e luoghi dove io aveva lavorato, quasi come portassino tributi, per i guadagni che avea fatto con esso loro, a detta mia casa; ma nondimeno per allora non feci altro che il palco della sala, il quale è assai ricco di legnami, con tredici quadri grandi, dove sono gli dei celesti, et in quattro angoli i quattro tempi dell'anno ignudi, i quali stanno a vedere un gran quadro, che è in mezzo, dentro al quale sono in figure grandi quanto il vivo la Virtù, che ha sotto i piedi l'Invidia e, presa la Fortuna per i capegli, bastona l'una e l'altra; e quello che molto allora piacque si fu che in girando la sala attorno, et essendo in mezzo la Fortuna, viene talvolta l'Invidia a esser sopra essa Fortuna e Virtù, e d'altra parte la Virtù sopra l'Invidia e Fortuna, sì come si vede che aviene spesse volte veramente. Dintorno nelle facciate sono la Copia, la Liberalità, la Sapienza, la Prudenza, la Fatica, l'Onore et altre cose simili, e sotto attorno girano storie di pittori antichi, di Apelle, di Zeusi, Parrasio, Protogene et altri con varii partimenti e minuzie, che lascio per brevità. Feci ancora nel palco d'una camera di legname intagliato, Abram in un gran tondo, di cui Dio benedice il seme e promette multiplicherà in infinito, et in quattro quadri, che a questo tondo sono intorno, feci la Pace, la Concordia, la Virtù e la Modestia, e perché adorava sempre la memoria e le opere degli antichi, vedendo tralasciare il modo di colorire a tempera, mi venne voglia di risuscitare questo modo di dipignere, e la feci tutta a tempera; il qual modo per certo non merita d'esser affatto dispregiato o tralasciato; et all'entrar della camera feci, quasi burlando, una sposa, che ha in una mano un rastrello, col quale mostra avere rastrellato e portato seco quanto ha mai potuto dalla casa del padre, e nella mano che va innanzi, entrando in casa il marito ha un torchio acceso, mostrando di portare dove va il fuoco, che consuma e distrugge ogni cosa.
Mentre che io mi stava così passando tempo, venuto l'anno 1548, don Giovan Benedetto da Mantoa, abate di Santa Fiore e Lucilla monasterio de' monaci neri cassinensi, dilettandosi infinitamente delle cose di pittura et essendo molto mio amico, mi pregò che io volessi fargli nella testa di uno loro refettorio un Cenacolo, o altra cosa simile. Onde risolutomi a compiacerli, andai pensando di farvi alcuna cosa fuor dell'uso comune, e così mi risolvei insieme con quel buon padre a farvi le nozze della reina Ester con il re Assuero, et il tutto in una tavola a olio, lunga quindici braccia, ma prima metterla in sul luogo, e quivi poi lavorarla; il qual modo (e lo posso io affermare, che l'ho provato) è quello che si vorrebbe veramente tenere a volere che avessono le pitture i suoi proprii e veri lumi, perciò che infatti il lavorare a basso, o in altro luogo che in sul proprio dove hanno da stare, fa mutare alle pitture i lumi, l'ombre e molte altre proprietà. In quest'opera adunque mi sforzai di mostrare maestà e grandezza, comeché io non possa far giudizio se mi venne fatto o no; so bene che il tutto disposi in modo, che con assai bell'ordine si conoscono tutte le maniere de' serventi, paggi, scudieri, soldati della guardia, bottiglieria, credenza, musici, et un nano, et ogni altra cosa che a reale e magnifico convito è richiesta. Vi si vede fra gl'altri lo scalco condurre le vivande in tavola, accompagnato da buon numero di paggi vestiti a livrea, et altri scudieri e serventi. Nelle teste della tavola, che è aovata, sono signori et altri gran personaggi e cortigiani che in piedi stanno, come s'usa, a vedere il convito. Il re Assuero stando a mensa come re altero et innamorato sta tutto appoggiato sopra il braccio sinistro, che porge una tazza di vino alla reina, et in atto veramente regio et onorato. Insomma se io avessi a credere quello che allora sentii dirne al popolo, e sento ancora da chiunche vede quest'opera, potrei credere d'aver fatto qualcosa, ma io so da vantaggio come sta la bisogna, e quello che arei fatto se la mano avesse ubidito a quello che io m'era concetto nell'idea. Tuttavia vi misi (questo posso confessare liberamente) studio e diligenza. Sopra l'opera viene nel peduccio d'una volta un Cristo che porge a quella regina una corona di fiori, e questo è fatto in fresco, e vi fu posto per accennare il concetto spirituale della istoria, per la quale si denotava che repudiata l'antica sinagoga Cristo sposava la nuova chiesa de' suoi fedeli cristiani.
Feci in questo medesimo tempo il ritratto di Luigi Guicciardini, fratello di Messer Francesco che scrisse la Storia, per essermi detto Messer Luigi amicissimo et avermi fatto quell'anno, come mio amorevole compare, essendo commensario d'Arezzo, una grandissima tenuta di terre, dette Frassineto in Valdichiana; il che è stata la salute et il maggior bene di casa mia, e sarà de' miei successori, sì come spero, se non mancheranno a loro stessi. Il quale ritratto, che è appresso gl'eredi di detto Messer Luigi, si dice essere il migliore e più somigliante, d'infiniti che n'ho fatti. Né de' ritratti fatti da me che pur sono assai farò menzione alcuna, che sarebbe cosa tediosa; e per dire il vero, me ne sono difeso quanto ho potuto di farne. Questo finito, dipinsi a fra' Mariotto da Castiglioni aretino, per la chiesa di San Francesco di detta terra, in una tavola la Nostra Donna, Santa Anna, San Francesco e San Salvestro. E nel medesimo tempo disegnai al cardinal di Monte, che poi fu papa Giulio Terzo, molto mio patrone, il quale era allora legato di Bologna, l'ordine e pianta d'una gran coltivazione, che poi fu messa in opera a' piè del Monte San Savino, sua patria, dove fui più volte d'ordine di quel signore, che molto si dilettava di fabricare. Andato poi, finite che ebbi quest'opere, a Fiorenza, feci quella state, in un segno da portare a processione della Compagnia di San Giovanni de' Peducci d'Arezzo, esso Santo che predica alle turbe da una banda, e dall'altra il medesimo che battezza Cristo, la qual pittura avendo sùbito che fu finita mandata nelle mie case d'Arezzo, perché fusse consegnata agl'uomini di detta Compagnia, avvenne che passando per Arezzo monsignor Giorgio cardinale d'Armignach franzese, vide, nell'andare per altro a vedere la mia casa, il detto segno, o vero stendardo; per che, piacciutogli, fece ogni opera d'averlo, offerendo gran prezzo, per mandarlo al re di Francia, ma io non volli mancar di fede a chi me l'aveva fatto fare, perciò che se bene molti dicevano che n'arei potuto fare un altro, non so se mi fusse venuto fatto così bene e con pari diligenza.