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— No — ammise Raederle in un sussurro.

— Non la compassione ma… la passione! — Qualcosa nel suo tono sembrò aprirsi, come una crepa nella roccia dell’Isig, a rivelare un’inaspettata vena di gioielli e di segreti sepolti, ma poi richiuse la bocca con una smorfia. Abbassò una mano a sfiorare il fuoco e d’un tratto ne strappò una fiammella che le guizzò fra le dita come un passero imprigionato. Scosse la mano, facendone cadere una ragnatela di luce, un osso spolpato, uno spolverio di stelle, una conchiglia bianca come la luna. Forma dopo forma altre immagini cadevano dalle sue dita: una manciata di fiori scintillanti, un cestello intrecciato con erbe simili ad alghe marine, un’arpa dalle corde argentee e sottilissime. Nell’osservarla Raederle sentì nascere in lei un impulso, il desiderio di possedere anch’ella la conoscenza e il controllo di quel fuoco magico. Il volto della donna era chino; come dimentica di lei, intenta al suo lavoro, sembrava perdersi nella meraviglia e assaporare la bellezza di ciò che creava. Infine lasciò che le fiamme si riabbassassero sul loro letto di braci. — Io prendo il mio potere, come tu il tuo, dal cuore stesso delle cose, dalla conoscenza di ciò che esse sono. Dalla curva interna di un filo d’erba, dal pallore di una perla chiusa nel segreto di un’ostrica, dall’odore che emana da un albero. Questo ti è già familiare, vero?

— Sì. — Raederle udì la sua stessa voce come da lontano, da oltre le pareti scure della stanza. La donna continuò, in un mormorio:

— Potresti capirlo: è l’essenza stessa del fuoco. Tu hai il potere. Puoi riconoscerlo, afferrarlo, dargli forma, perfino diventare fuoco tu stessa e mescolarti alla sua grande bellezza, libera da ogni legge umana. Sei esperta di illusioni, hai creato un miraggio di fuoco solare. Adesso lavora col fuoco vero. Guardalo. Comprendilo. Non con gli occhi, né con la mente, ma col potere che hai di accettare senza paura e senza domande la cosa in se stessa. Alza una mano, allungala, tocca il fuoco!

Raederle mosse lentamente una mano. Per un momento quella balenante creatura di luce che la attirava, che aveva conosciuto per tutta la vita senza conoscerla, le parve uno degli enigmi che si ponevano ai bambini. Incuriosita fece per sfiorarla. Poi comprese che se avesse toccato quel fuoco sarebbe stato come rinnegare il suo nome, il suo stesso diritto ereditario a far parte della dinastia di An, per sostituirli con un’eredità che non conosceva la pace, con un nome che nessuno sapeva. Le sue dita, già tese alla fiamma, si chiusero bruscamente. Allora sentì il calore, la barriera bruciante del fuoco, e ritrasse subito la mano. Dalla bocca le scaturì un ansito:

— No!

— Tu potresti, se volessi. Ti basterebbe abbandonare la paura che provi per l’origine dei tuoi poteri.

— E poi che accadrebbe? — Con uno sforzo distolse lo sguardo dalla sua mano. — Perché mi dici questo? Tu cosa ci guadagni?

Qualcosa nell’espressione della donna mutò, come se nell’oscurità della sua mente la porta di un pensiero si fosse chiusa. — Nessuna ragione particolare. Ero curiosa. Di te, e del voto di tuo padre che ti ha legata al Portatore di Stelle. Mathom ha il dono della precognizione?

— Non lo so.

— Io mi attendevo l’arrivo del Portatore di Stelle, ma non il tuo. Se mai lo rivedrai avrai il coraggio di dirgli, o di lasciargli capire, che sei della stessa razza di coloro che cercano di distruggerlo? E se gli darai un figlio, gli rivelerai quale sangue avrà nelle vene?

Raederle deglutì. Aveva la gola secca, e si sentiva la pelle del volto come stirata dalla tensione. Per ritrovare la voce fu costretta a inghiottire ancora saliva. — Lui è un Maestro degli Enigmi. Non ha bisogno che cose simili gli siano dette. — D’improvviso si ritrovò in piedi, attanagliata da un’angoscia insopportabile. Volse le spalle alla donna. — In tal caso, mi avrà vinta con un enigma e mi avrà lasciata a causa di un altro! — ansimò, quasi senza sapere cosa stava dicendo. — Queste sono forse cose che riguardano te?

— Perché altrimenti sarei qui? Tu hai paura di toccare il potere lasciato a te da Ylon; dunque ricorda il suo tormento, il suo desiderio.

Una tristezza disperata salì come una marea nell’animo di Raederle, finché non vide più nulla e non sentì più nulla, salvo la sofferenza e la nostalgia che l’avevano pervasa alla vista di Pian Bocca di Re. Alle narici le giunse l’odore salmastro del mare, delle alghe secche, del ferro arrugginito nel vento marino che anche Ylon doveva aver sentito nella sua prigionia. Udì il vuoto tonfo delle onde contro la base della torre di pietra, il risucchio delle acque che si ritraevano dai denti scabri delle rocce sotto di lui. Udì i lamenti degli uccelli marini che stridevano lasciandosi portare via dal vento. E poi udì provenire da un mondo al di là della tenbra, al di là della speranza, le note di un’arpa stranamente intonate alla sua tristezza, i cui arpeggi di pianto erano anche il suo pianto. Era una musica lieve, quasi sperduta nello scrosciare della pioggia sul mare e nel respiro incessante delle onde. Sentì la sua anima smarrirsi in quell’arpa, ebbe l’impressione di muoversi verso di essa, stordita, finché s’accorse che le sue mani s’erano appoggiate ai vetri freddi, come le mani di Ylon dovevano essersi appoggiate alle sbarre della sua finestra. Con un ansito scacciò da sé la voce dell’arpa e la voce del mare, e indietreggiò lentamente. La voce della donna fu come un sussurro che si allontanava sempre più:

— Tutti noi abbiamo quell’arpa nel sangue. Morgon uccise l’arpista, il padre di Ylon. Dunque dove, in un mondo che muta così inaspettatamente, pensi di aggrapparti per cercare la sicurezza che desideri?

Il silenzio che restò nella stanza dopo l’uscita della donna fu profondo come quello che precede la tempesta. Raederle volse le spalle alla finestra e fece un passo verso la porta. Ma Lyra non avrebbe potuto aiutarla affatto, e forse non l’avrebbe neppure capita. L’assenza di rumori fu rotta da un rantolo che sentì uscire dalla sua stessa gola, e si tappò la bocca con le mani. Un volto scivolò nei suoi pensieri: il volto di uno sconosciuto adesso, magro, amaro, tormentato anch’egli. Neppure Morgon avrebbe potuto aiutarla. Ma lui aveva saputo sopportare il contatto della verità e, per quel che riguardava lei, avrebbe potuto affrontarne un’altra. Le sue mani avevano cominciato a muoversi ancora prima che se ne fosse resa conto, togliendo dalla sacca da viaggio le vesti che non le sarebbero servite. Vi rovesciò dentro la frutta, le noci e i pasticcini dei due vassoi che le erano stati lasciati sul tavolo, ripiegò sopra di essi una soffice pelliccia, quindi richiuse la sacca. Si gettò il pesante mantello sulle spalle e uscì in punta di piedi, lasciando dietro di sé come un messaggio il disordine e l’evidenza della sua assenza.

Nell’oscurità di quella vasta dimora sconosciuta non fu capace di trovare le stalle, così uscì dal cortile a piedi, e alla luce della luna scese giù dalla montagna per la strada che portava all’Ose. Dalle mappe che Corbett aveva consultato spesso sapeva che l’Ose curvava a sud per un certo tratto, dopo aver girato intorno alle pendici delle colline dietro l’Isig; avrebbe potuto seguirne il corso fin dove tornava a voltare a oriente. Nel lasciare Osterland Morgon s’era diretto a sud lungo quello stesso percorso, o così poteva arguire, sempreché intendesse recarsi a Herun. O forse, come i maghi, s’era messo sulla strada di Lungold? Ma questo non aveva importanza, rifletté, poiché la via migliore per il sud restava quella. E con la sua mente da mago all’erta contro il pericolo, forse si sarebbe accorto della presenza di lei e avrebbe cercato di raggiungerla per investigare sulla sua identità, in quelle vaste zone deserte dell’entroterra.