Trovò una vecchia carrareccia, irregolare e fangosa, che scendeva lungo il fiume, e seguì quella. Dapprima, mentre quasi fuggiva dalla dimora del Re, l’eccitazione l’aveva fatta sentire invisibile, intoccabile dalla stanchezza, dalla paura e dal freddo. Ma il fruscio eterno dell’Ose non tardò a riportarla coi piedi sulla terra, e guardandosi attorno nel buio fu scossa da brividi. La luna riempiva la stradicciola di ombre oscure; la voce del fiume copriva altre voci, suoni che non era mai veramente certa di udire, scalpiccii che potevano essere qualcosa che la seguiva o che veniva verso di lei. Gli antichi abeti con la loro corteccia rugosa, stranamente simile alla faccia di Danan, le davano un po’ di conforto. Ad un tratto sentì fra i cespugli un fruscio e il ringhio di un animale, e si fermò di botto. Due bestie lottavano nel folto. Poi la fanciulla si disse che della sua sorte non gliene importava molto, e proseguì, ma fu sollevata quando quei rumori allarmanti si dileguarono in distanza. Camminò finché la carrareccia terminò senza preavviso in una parete di rovi, e la luna ormai al tramonto le impedì di trovare un’uscita. Tolse la pelliccia dalla sacca, la distese sull’erba e vi si arrotolò dentro. Era così sfinita che si addormentò subito, ma nei suoi sogni udì il mormorio dell’Ose che faceva da sottofondo al triste canto di un’arpa marina.
Si svegliò all’alba, e i suoi occhi furono subito abbagliati dal tocco del sole. Scese al fiume per lavarsi la faccia alla meglio e bevve, quindi mangiò un poco del cibo che aveva messo nella sacca. Le dolevano le ossa; i suoi muscoli snelli protestarono a ogni movimento finché non ebbe cominciato a camminare di lena. Farsi strada lungo la riva del fiume non sembrava difficile; evitò gli agglomerati di cespugli, scalò i banchi di rocce fra cui a tratti la corrente si spezzava in brevi rapide; si tolse gli stivali e si sollevò la veste nei punti in cui era necessario scendere per un po’ nell’acqua, si ammaccò le ginocchia e si graffiò le mani ogni volta che cadde, e sentì il sole caldo batterle sul volto. Dopo il primo tratto difficoltoso perse la cognizione del tempo, ed era a tal punto intenta a misurare ogni suo movimento sulle rocce che solo più tardi, udendo un rumore alle spalle, si rese conto che qualcuno la seguiva.
Si fermò con un fremito. Vacillando in malcerto equilibrio su due sassi dimenticò la stanchezza e il mal di piedi, mentre tendeva gli orecchi girando lo sguardo qua e là. Si chinò, bevve un po’ d’acqua e guardò ancora dietro di sé. Nella pigra calura del mezzodì non si muoveva una foglia, e tuttavia ella sentiva qualcosa, captava il suo nome nella mente di qualcuno. Bevve ancora, si asciugò la bocca con una manica, e si strappò dal polsino un filo d’argento con cui fece una treccia.
Lasciò dietro di sé parecchi di quei sviluppi di filo, cospicui e intricatissimi. Usò dei lunghi steli d’erba che annodò in modo complicato; sembravano fragili all’occhio, ma ad un uomo o a un cavallo che vi fossero capitati sopra sarebbero apparsi solidi come catene. Depose un certo numero di rovi nei punti di passaggio obbligato, immaginando che l’incantesimo li avrebbe trasformati agli occhi di chi la seguiva in barriere insuperabili. Più avanti scavò al suolo una buchetta larga un palmo, ne circondò il bordo con alcune foglie e poi la riempì d’acqua con le mani. Rifletteva l’azzurro del cielo come un occhio aperto nel terreno, null’altro che una buchetta, ma capace di diventare il miraggio di un lago dinnanzi a chi si fosse fermato sulla sua riva.
L’allarmante sensazione d’essere seguita cominciò a sfumare, e si disse che l’uomo doveva esser finito in qualcuna delle sue trappole. Allora si permise di rallentare il passo. Era ormai tardo pomeriggio, e il sole si abbassava sulle cime piatte dei pini. Il vento fresco della sera cominciò a levarsi fra le piante. Portava con sé l’odore della solitudine e della desolazione dell’entroterra. Gettò uno sguardo alla lunga teoria di giorni e di notti che si prospettavano dinnanzi a lei, al viaggio faticoso attraverso lande disabitate, quasi impossibile per chi osasse affrontarlo senz’armi e a piedi. Ma dietro di sé lasciava il Passo Isig coi suoi segreti oscuri e inesplorabili; e ad An non c’era nessuno, neppure suo padre, da cui avrebbe potuto avere un grammo di conoscenza. Poteva solo sperare che la sua cieca necessità avrebbe finito per inciampare da sola su ciò che poteva soddisfarla. Fu scossa da un brivido, non per il vento, ma al vuoto fruscio del suo passaggio, e riprese il cammino. Il sole tramontò, accarezzando gli alberi con le sue ultime dita di luce purpurea; il crepuscolo scese su un mondo fatto di silenzio irreale. La fanciulla continuò a procedere, senza pensare, senza fermarsi a mangiare, e senza capire che stava oltrepassando il limite sottile della sua resistenza fisica. Si alzò la luna; il suo lento progredire ipnotico al di sopra di cose che non poteva vedere cominciò a rallentare i suoi passi. Ad un tratto cadde, in apparenza senza alcun motivo, e quando cercò di rialzarsi fu sorpresa di scoprire quanto le era difficile. Pochi passi più avanti tornò a cadere, e ne provò lo stesso ottuso stupore. Mentre si tirava in piedi sentì il sangue caldo lungo i ginocchi, e vacillando finì con una mano fra le spine. Restò lì, stringendosi la mano sotto un’ascella, e si chiese perché il suo corpo stesse tremando, visto che l’aria della notte non era fredda. Fu allora che vide, come un sogno divenuto realtà, il rosseggiare di un piccolo fuoco che brillava fra gli alberi. Quando si fu avvicinata scoprì che l’uomo seduto nell’alone della fiamma era l’arpista del Supremo.
Per un momento, immobile nella penombra rosata, fu soltanto capace di pensare che non era Morgon. L’uomo sedeva con le spalle appoggiate a un macigno, a capo chino, il volto nascosto dai capelli argentati. Poi sollevò la testa e si accorse della sua presenza.
Lei sentì il suo ansito: — Raederle?…
La ragazza fece un passo indietro, e lui ebbe un movimento brusco come fosse sul punto di alzarsi e fermarla prima che svanisse di nuovo nell’oscurità. Poi l’uomo si controllò, e con deliberata calma si riappoggiò con le spalle alla roccia. Sul suo volto c’era un’espressione che non gli aveva mai visto prima, e che la costrinse a indugiare oltre la portata della luce. Lui ebbe un gesto d’invito verso il fuoco e la lepre infilata in uno spiedo sopra di esso.
— Sembri stanca; riposati un poco. — Girò lo spiedo, e un profumo di carne arrosto aleggiò nell’aria fino a lei. L’uomo aveva i capelli spettinati, il suo volto appariva smagrito, segnato, stranamente comunicativo. La voce, musicale e velata d’ironia, non era cambiata.
Lei mormorò: — Morgon ha detto che tu… tu suonavi l’arpa, mentre lui languiva mezzo morto in potere di Ghisteslwchlohm.
Vide un muscolo contrarsi sul suo volto. L’uomo allungò una mano a cercare un paio di rametti e li gettò sul fuoco. — È vero. Riceverò la ricompensa che mi spetta, per quella musica. Ma badiamo a noi: vuoi qualcosa da mangiare? Io sono condannato, e tu sei affamata. Sono questioni che hanno poco a che fare l’una con l’altra, dunque non c’è motivo che tu non possa mangiare con me.
Fece un altro passo, questa volta verso di lui. Benché si sentisse scrutata l’espressione dell’arpista non cambiava, così la giovane donna osò muovere ancora un passo. Lui tolse un boccale dalla sacca, lo riempì di vino con una borraccia di pelle. Infine lei si decise ad accostarsi e protese le mani verso il fuoco. Sentì una fitta di dolore; se le guardò e le vide più segnate dai rovi e dalle spine di quanto avrebbe creduto, lui disse: — Ho dell’acqua… — Lei si volse e lo vide raccogliere una ciotola, in cui versò dell’acqua da un piccolo otre floscio. Le sue dita ebbero un tremito mentre richiudeva il tappo, e non disse altro. La ragazza sedette e si lavò via la polvere e il sangue dalle mani. Sempre in silenzio lui le passò il boccale, il pane e la carne, e guardandola mangiare si limitò a sorseggiare il suo vino.