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— Cannon, io volevo tornare a casa, ma…

Mastro Cannon si appoggiò alla murata accanto a loro. — Allora dovrò metterla a questo modo: io te l’ho chiesto con tutto il rispetto che ti devo, e adesso te lo chiedo una seconda volta. Ma la terza volta non mi limiterò a chiedertelo.

Tristan lo fronteggiò a testa alta. Bri Corbett si permise un sogghigno d’approvazione che increspò il suo volto rude. Tristan aprì la bocca per replicare; poi, sotto il peso dello sguardo tormentato ma implacabile di Cannon, cambiò visibilmente tattica.

— Cannon, io so dov’è Morgon, o almeno dove sta andando. Così basta soltanto che tu dica a Eliard di aspettare un po’ e…

— Diglielo tu. L’altro giorno gli ho detto che era una bella mattinata e lui mi ha scaraventato addosso un secchio d’acqua sporca. Adattati a quest’idea, Tristan: quando Morgon avrà voglia di tornare, allora tornerà. Senza alcun aiuto da parte nostra. Proprio com’è riuscito a sopravvivere finora. Sono sicuro che apprezzerà molto il tuo tentativo di ritrovarlo, e quanto hai fatto fino ad oggi.

— Volendo, potresti venire con me…

— Mi sento già male come un cane al pensiero di starmene qui, con tutta quest’acqua fra me e Hed. Se tu vuoi che ritorni, allora vieni a Hed. In nome del Supremo, dagli qualcosa a cui ritornare; dagli la sua casa con quelli che lui ama.

Tristan restò in silenzio, fissando l’ombra dell’albero maestro stesa sul tavolato del ponte, mentre le onde mormoravano contro il molo. Infine disse: — E va bene. — Fece un passo avanti, poi si fermò. — Andrò a casa, tanto per far vedere a Eliard che sto benissimo. Ma non prometto che ci resterò. No, questo non lo prometto. — Si volse a Raederle e la abbracciò strettamente. — Abbi cura di te — mormorò. — E se vedi Morgon, digli… digli tutto. E chiedigli di tornare a casa presto.

Lasciò Raederle e lentamente andò accanto a Cannon. Lui le scarruffò affettuosamente i capelli con una mano, se la strinse al fianco, e dopo un momento la fanciulla gli passò un braccio intorno alla cintura. Raederle li guardò scendere giù dalla passerella e poi farsi strada lungo il molo affollato e pieno di merci accatastate alla rinfusa. D’improvviso fu attanagliata dalla nostalgia per Anuin, per Duac, per Elieu di Hel, per gli istrionici sguardi da corvo di Rood, per i rumori e gli odori di An, per i boschi di querce spruzzati di sole e per i profondi sussurri della terra che le parlavano della sua storia millenaria.

Alle sue spalle la voce di Corbett suonò dolce: — Non siate triste. Da qui a una settimana respirerete di nuovo l’aria di casa.

— Davvero? — Abbassò gli occhi sul palmo della mano sinistra e vide il candido marchio che non aveva nulla a che spartire con An. Poi, avvertendo l’ansia dell’uomo, esibì un tono frivolo: — Credo proprio di aver bisogno di scendere da questa nave. Volete ordinare che portino a terra il mio cavallo?

— Se aspettate un poco, potrò scortarvi io.

Gli poggiò una mano sulla spalla. — Non mi accadrà nulla. Voglio restare sola per qualche ora.

A cavallo attraversò le banchine, poi le indaffarate strade dove avvenivano le attività mercantili della città, e se anche qualcuno ebbe l’idea d’importunarla non se ne accorse neppure. Il crepuscolo allungava una rete d’ombre sull’acciottolato quando svoltò sulla silenziosa via che risaliva fino alla Scuola. Solo allora rifletté che quel giorno non aveva visto studenti, avvolti nelle loro toghe sgargianti e sempre inquieti, in nessun quartiere di Caithnard. Anche sulla strada non se ne vedeva uno. Più in alto, quando il vento che soffiava sul promontorio la investì senza più ostacoli, vide che il terreno intorno alla Scuola era del tutto deserto.

Si fermò. L’antico edificio di pietra nera dalle finestre chiuse sembrava ospitare soltanto il fallimento delle sue speranze, il crollo di ogni verità, amaro e terribile come i tradimenti perpetrati al Monte Erlenstar. L’ombra nera di quella montagna s’era allungata attraverso il reame toccando il cuore dei Maestri, costringendoli a scoprire che la peggiore delle falsità si celava entro il loro stesso sacrario. Potevano aver mandato via gli studenti per interrogarsi l’un l’altro, ma lei sapeva che nessuno di loro avrebbe avuto il coraggio di mettere in discussione gli scopi e i significati su cui la Scuola degli Enigmi era stata edificata.

Smontò davanti alla porta e bussò. Nessuno venne ad aprire, ma il battente era socchiuso ed entrò. L’andito era vuoto, immerso nel buio. Avanzò nel corridoio a passi lenti, fermandosi a tratti per guardare nella fila di stanze che una volta avevano odorato di libri, di biancheria, di candele fumose alla cui luce gli studenti solevano fare interminabili gare di enigmi. Al pianterreno non c’era un’anima. Salì le massicce scale di pietra e al primo piano trovò soltanto altre file di porte spalancate, stanze che contenevano cartacce e residui lasciati da coloro che avevano fatto i bagagli. Infine si trovò davanti la porta della Biblioteca dei Maestri. Era chiusa.

La spinse ed entrò. Otto Maestri e un Re interruppero la loro pacata discussione per voltarsi, e la fissarono sorpresi. Gli occhi del Re, azzurri come il ghiaccio antico, ebbero un lampo di divertita curiosità al suo ingresso.

Uno dei Maestri si alzò e inchinò cortesemente il capo. — Raederle di An. C’è qualcosa che noi possiamo fare per te?

— Lo spero — mormorò lei. — Lo spero, perché non ho altro posto dove andare.

CAPITOLO OTTAVO

Seduta fra quegli uomini attenti e silenziosi raccontò loro della cambiaforma che le aveva fatto visita nella dimora di Danan, e della sua fuga dal Monte Isig. Disse della pietra che Astrin aveva trovato a Pian Bocca di Re, e mostrò il marchio sul palmo della sua mano. Narrò di come avesse tenuto il fuoco chiuso fra le dita, quella notte nell’entroterra, dinnanzi all’arpista del Supremo che la osservava da sopra l’orlo scintillante del suo boccale. Ripeté loro, sapendo che la conoscevano ma spinta dalla tristezza e dall’orgoglio, la storia di Ylon, che era nato da una donna di An e da una creatura informe del mare, e vide nei loro occhi le ombre e gli intrecci mentali di chi è esperto di enigmi. Quando terminò di parlare fuori era caduta la notte, e nel locale gli uomini dalle toghe nere, i banchi, le file di preziosissimi manoscritti dalla copertina dorata, erano confusi in una massa d’ombre immobili. Uno dei Maestri accese una candela. La fiammella le rivelò il volto stanco e paziente di lui, contratto in un’espressione pensosa, e sulla destra la faccia magra e volitiva del Re di Osterland. Il Maestro disse sottovoce: — Tutti stiamo interrogando noi stessi in questi giorni.

— Lo so. E so quale importanza date alla cosa. Voi non avete chiuso la Scuola soltanto perché avevate accolto qui il Fondatore di Lungold come un Maestro. So chi fu ad accogliere Morgon, quando Deth lo condusse al Monte Erlenstar.

La candela che il Maestro stava abbassando verso lo stoppino di un’altra si fermò. — Sai anche questo?

— L’ho intuito. E più tardi Deth… Deth me lo ha confermato.

— Sembra che non abbia certo provato a consolarvi molto — disse Har. La sua voce suonò asciutta e calma, ma lei scorse sul suo volto un accenno dell’ansia e della confusione che l’arpista aveva sparso nel reame.

— Io non gli ho chiesto che mi consolasse. Volevo la verità. Voglio cercarla, ed è per questo che sono qui: è un buon posto da cui partire. Non posso tornare ad An con questo marchio. Se mio padre fosse là forse oserei. Ma non sarei capace di rimettere piede a palazzo e poi fingere con Duac, e Rood, e i nobili di appartenere ad An come le radici degli alberi e i sepolcri degli antichi Re. In me c’è potere, e io ne ho paura. Io non so… non so cosa ho liberato dentro di me senza conoscerne il vero significato. E comunque non so a cosa appartengo. Non so cosa fare.