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L’uomo la studiò per qualche istante in silenzio. Quando parlò la sua voce era morbida come i fiocchi di neve che nell’immobilità della nebbia scendevano sulla sua nordica terra. — Un giorno Morgon mi disse che a Hlurle, a mezza via del suo viaggio verso Monte Erlenstar, gli era accaduto di starsene seduto a lungo in una vecchia locanda, da solo, mentre aspettava un imbarco per tornare a Hed. Ma una cosa lo trattenne dal fare ritorno a casa: la consapevolezza che non avrebbe potuto chiedervi di vivere con lui a Hed, a meno che non fosse riuscito a darvi la verità sul suo nome, su se stesso. Così decise di proseguire il viaggio. Allorché non molto tempo fa lo rividi entrare in casa mia, come un qualunque viandante che cercasse alloggio per la notte, ciò che vidi dapprima non fu il Portatore di Stelle: io vidi la terribile, inesorabile pazienza che c’era negli occhi di un uomo, quella pazienza che nasce dall’assoluta solitudine. Fu per voi che entrò nell’oscura torre della verità. Avrete il coraggio di mettere il vostro nome nelle sue mani?

Senza che lei lo volesse, il suo pugno sinistro si chiuse sulle linee bianche del marchio. Poi sentì qualcosa in lei, come un nodo che era stato stretto e che lentamente adesso si scioglieva. Annuì, non fidandosi della voce, e le sue dita si riaprirono, offrendo alla luce delle candele quel simbolo di misteriosa conoscenza. — Sì — disse poi. — Qualunque sia il potere tramandato a me da Ylon, io giuro sul mio onore che compirò ogni sforzo per volgerlo solo a qualcosa che sia degno. Dove si trova lui, adesso?

— Sta senza dubbio scendendo attraverso Ymris, diretto ad Anuin e poi a Lungold, pare, visto che quella sembra la destinazione verso cui sta spingendo Deth.

— E poi dove? Dopo che avrà fatto quel che ha deciso, dove? Non avrà il coraggio di tornare a Hed.

— No. Non se ucciderà l’arpista. A Hed non ci sarebbe pace per lui. Non lo so. Dove può andare un uomo per sfuggire a se stesso? Glielo chiederò quando lo rivedrò a Lungold.

— Voi intendete recarvi là…

Lui annuì. — Penso che potrebbe aver bisogno di un amico, a Lungold.

— Vi prego, desidero venire con voi.

Sulle facce dei Maestri lesse una muta protesta. Il Lupo-Re inarcò un sopracciglio. — Tanto lontano volete andare per fuggire da voi stessa? Lungold. E poi dove? Quanta strada può fare un albero che cerca di sfuggire alle sue radici?

— Io non sto cercando di… — S’interruppe, evitando il suo sguardo.

Dolcemente egli disse: — Andate a casa.

— Har — intervenne gravemente il Maestro Tel. — Questo è un consiglio che fareste bene a dare a voi stesso. Quella città non è un posto sicuro neppure per voi. I maghi andranno a cercare Ghisteslwchlohm laggiù: il Portatore di Stelle vi cercherà Deth; e se anche i cambiaforma interverranno non un solo essere vivente potrà considerarsi al sicuro a Lungold.

— Lo so — ammise Har, e il suo sorriso si spense. — Quando sono passato da Kraal, dei mercanti mi chiesero dove pensavo che i maghi fossero andati, dopo che furono visti svanire. Sono gente abituata a usare gli occhi e il naso, e i loro orecchi spaziano in tutto il reame quando si tratta di stabilire fino a che punto è rischioso andare a commerciare in una città condannata. I mercanti, come gli animali, hanno un sesto senso per il pericolo.

— E così voi — disse severamente il Maestro Tel. — Ma voi non avete il sano istinto di starne alla larga.

— Ma dove ci suggerireste di cercare la sicurezza, in un reame condannato? E quando, nell’intervallo fra un enigma e la sua risposta, c’è qualcosa di diverso dal pericolo?

Il Maestro Tel scosse il capo. Poi lasciò cadere l’argomento, rendendosi conto che infine si trattava di una questione privata. Si alzarono e scesero in refettorio per la cena, che era stata cucinata da un pugno di studenti i quali non avevano altra famiglia che i Maestri, né altra casa che la Scuola. Trascorsero il resto della sera in biblioteca, con Raederle e il Lupo-Re che ascoltavano, a discutere sulle possibili origini dei cambiaforma, sul significato della pietra trovata a Pian Bocca di Re, e sul volto sconosciuto che essa conteneva.

— Il Supremo? — suggerì a un certo punto il Maestro Tel, e Raederle si sentì chiudere la gola da una paura senza nome. — È possibile che essi siano così interessati a rintracciarlo?

— Perché dovrebbero interessarsi al Supremo più di quanto egli non si interessa a loro?

— Forse il Supremo si sta nascondendo da loro — osservò un altro. Har, seduto nell’ombra e così immobile che Raederle s’era quasi dimenticata della sua presenza, alzò di colpo la testa, ma non disse nulla. Uno degli altri Maestri colse al volo quell’ipotesi:

— Se il Supremo si fosse nascosto per paura di loro, perché non anche Ghisteslwchlohm? La legge del Supremo nel reame non è stata mai minata; sembra che lui li ignori piuttosto che averne paura. E tuttavia… lui è un Signore della Terra; le stelle di Morgon sono inestricabilmente collegate a quello che fu il tragico destino dei Signori della Terra e dei loro figli; sembra dunque incredibile che egli non abbia replicato a questa minaccia portata al suo reame.

— Qual è esattamente la minaccia? Qual è la vera estensione dei loro poteri? Quali le loro origini? Chi sono? Cosa vogliono? Cosa vuole Ghisteslwchlohm? Dov’è il Supremo?

Le domande stagnavano nell’atmosfera della stanza insieme al fumo puzzolente delle torce; poderosi manoscritti vennero tolti dagli scaffali, consultati e poi lasciati sui leggii con la cera delle candele che sgocciolava sui loro margini. Raederle poté vedere libri di maghi dalle chiusure più svariate, udì i nomi-chiave o le frasi che aprivano le serrature di ferro, di rame o d’oro prive di fessure visibili, vide le nitide calligrafie nell’inchiostro nero che non sbiadiva mai, e le pagine bianche che rivelavano la loro scrittura come occhi che s’aprissero pian piano solo se sfiorate dall’acqua, o dal fuoco, o dall’alito di chi sussurrava il verso di una poesia. Infine non ci fu più un tavolo che non fosse ricoperto da tomi, polverosi rotoli di pergamena e candele mezze sciolte; e gli enigmi senza risposta parvero aleggiare come elusive entità fatte d’ombra nella luce tremolante degli stoppini. I Maestri s’erano fatti taciturni. Ma a Raederle, che lottava contro la stanchezza, sembrava ancora di udire le loro voci e i loro pensieri che discutevano, suggerivano, scartavano ipotesi e analizzavano domande in quel silenzio. Poi Har si alzò rigidamente, si accostò a uno dei libri rimasti aperti e voltò pagina. — Stavo ripensando a una vecchia storia, nulla che meriti d’esser considerato, con ogni probabilità. Una di Ymris, tratta dalla raccolta di leggende di Aloil, dove mi pare che ci sia un riferimento ai cambiaforma…

Raederle si alzò, sentendo che i suoi pensieri erano divenuti un groviglio inestricabile che la avviluppava. Le facce dei Maestri le apparvero remote, vagamente sorprese nel vederla vacillare sfinita. Rivolse loro un sorrisetto di scusa. — Casco dal sonno.

— Mi dispiace! — si affrettò a dire il Maestro Tel. Le poggiò cortesemente una mano su un braccio, conducendola alla porta. — Uno degli studenti è stato così previdente e premuroso da scendere al porto, e ha informato il capitano della vostra nave che siete qui; tornando ha portato con sé il vostro bagaglio. Dovrebbe esserci da qualche parte una stanza pronta per voi, o almeno credo…

L’uomo aprì la porta. Subito un giovane studente che sedeva in corridoio alla luce di una candela si alzò, chiudendo il libro che stava leggendo. Aveva una faccia magra, abbronzata, con un grosso naso affilato, e alla vista di Raederle ebbe un timido sorriso d’ammirazione. Portava una sdrucita toga bianca da Maestro Inferiore, e i polsini erano ancora bagnati a indicare che probabilmente aveva lavato i piatti in cucina. Dopo averla salutata con un lieve inchino del capo abbassò gli occhi sul pavimento e mormorò: — Signora, ho preparato un letto per voi nell’ala riservata ai Maestri. Ho messo là le vostre cose.