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— Grazie. — La fanciulla diede la buonanotte al Maestro Tel e seguì il giovane studente lungo i corridoi silenziosi. Lui non disse altro, anche se nel precederla con la candela un paio di volte si girò a guardarla con un lieve rossore. La stanza in cui la condusse era piccola e spoglia. Sul lettuccio c’era la sacca da viaggio, e brocche d’acqua e di vino erano su un piccolo tavolo, con un candeliere. Dalla finestra aperta, profondamente incassata nelle nude pareti di pietra, entrava il vento salmastro che più di sotto scuoteva le querce immerse nel buio. Lei ripeté: — Ti ringrazio — e andò a guardare fuori, benché non ci fosse da vedere altro che la luna e una stella solitaria che galleggiava fra i suoi corni. Sentì lo studente muovere un passo incerto dietro di lei.

— Le lenzuola sono ruvide — si scusò. Poi chiuse la porta e disse: — Raederle…

La giovane donna sentì il sangue ghiacciarsi nelle vene.

Nella morbida luce rosata delle candele il volto di lui fu per un istante una chiazza di linee e ombre vacillanti. Era un tantino più alto di come lo ricordava, e la malconcia toga bianca che non era cambiata nel suo mutamento di forma adesso gli stava un po’ stretta di spalle. Una corrente d’aria fece oscillare la fiamma delle candele, la luce gli si rifletté sui lineamenti e lei poté vedere i suoi occhi. Si portò una mano alla bocca.

— Morgon! — fu l’ansito spezzato che riuscì a emettere.

Nessuno dei due si mosse. L’aria che entrava dalla finestra sembrava essersi fermata fra di loro come una parete di pietra. Lui la fissò con occhi che erano stati sbarrati interminabilmente nella vuota tenebra del Monte Erlenstar, nelle sue pareti di roccia, e nella tenebra e nella roccia dei pensieri di un mago. Poi lei avanzò oltre quell’invisibile barriera, alzò le mani e nel poggiargliele sulle spalle le parve di toccare qualcosa senza età, come il vento o la notte, che aveva una forma e non l’aveva, scabro come un ciottolo consumato dall’acqua e che per eoni aveva rotolato negli oscuri recessi di una montagna. Lui si spostò appena, e quel movimento le ridiede la consapevolezza della sua forma fisica. Sentì le mani di lui, lievi come un respiro, sfiorarle i capelli in una carezza. Poi lo vide un po’ discosto da lei, e non seppe dire chi dei due aveva fatto un passo indietro.

— Stavo per venire da te ad Anuin, ma ho saputo che eri qui. — La voce di lui aveva un tono rauco e profondo, come se avesse parlato fino a consumarsela. Sedette sul letto accanto alla sacca, mentre lei lo guardava senza riuscire ad aprir bocca. Nel ricambiare lo sguardo di lei il suo volto, magro, indurito fino ad apparire quello di uno sconosciuto e imperscrutabile, si rilassò in un’espressione gentile che sembrava aver dimenticato. — Ti ho spaventata. Mi spiace, non volevo.

— Non mi hai spaventata. — La voce suonò remota ai suoi stessi orecchi, quasi che a parlare fosse il vento che entrava dalla finestra. Sedette al fianco di lui. — Ti stavo cercando.

— Lo so. L’ho sentito dire.

— Non credevo… Har ha detto che non saresti venuto qui.

— Ho visto la nave di tuo padre entrare in porto. E sapendo che Tristan era con te ho pensato di fermarmi in città.

— Potrebbe essere ancora qui. È venuto Mastro Cannon a prenderla, ma…

— No. Sono già partiti per Hed.

Il tono secco di quell’osservazione la indusse a scrutarlo pensosamente. — Tu non hai voluto rivederla.

— Non ancora.

— Mi ha chiesto, se ti avessi visto, di dirti questo: sii cauto.

Pur continuando a fissarla egli non disse nulla. La giovane donna fu costretta a riflettere che sembrava avere una specie di talento per il silenzio. Sembrava irradiare da lui come un fluido allorché decideva di tacere, simile al silenzio dei vecchi alberi e delle pietre rimaste immobili per anni. Era ritmato dal suo respiro lento, sembrava adagiarsi sulle cicatrici che gli segnavano le palme delle mani. Ma quando si alzò bruscamente, andando accanto al davanzale della finestra per guardare fuori, scivolò via da lui come un mantello. Raederle si domandò se avesse il dono di vedere lontano, nella notte, fino a Hed.

— Si parla molto del viaggio che avete fatto — disse. — Tu, Lyra e Tristan su una nave di Mathom, rubata di notte nel porto di Caithnard. Ho sentito raccontare di come siete sfuggite alle navi da guerra di Ymris abbagliandole con una luce simile a un piccolo sole, e di come avete risalito il Fiume Inverno su una chiatta, decise ad arrivare alla dimora del Supremo per fargli una domanda… e dici a me di essere cauto! Cos’era quella luce che ha giocato perfino Astrin? Fra i mercanti ha fatto nascere le più fantasiose speculazioni. Anch’io ero incuriosito.

Lei fece per rispondergli, poi ci ripensò. — E quali sono le speculazioni che hai fatto tu?

Tornò a sedersi accanto a lei. — Ho pensato che probabilmente era opera tua. Ricordavo che tu potevi fare certe cosette…

— Morgon…

— Aspetta. Vorrei dirti che… non importa quel che è accaduto o che accadrà… mentre lasciavo Isig sapevo già che voi vi eravate messe in viaggio per il nord. Io sentivo i vostri nomi, durante il cammino. Li avvertii all’improvviso, come luci piccolissime e lontane. Posso sentirli anche adesso.

— Tristan desiderava disperatamente vederti. Non potresti…

— Non ancora.

— Allora quando? — chiese lei, sconfortata. — Dopo che avrai ucciso Deth? Morgon, quello potrebbe essere un arpista di troppo.

Il volto di lui non mutò espressione, ma i suoi occhi scivolarono via di lato, come verso un ricordo. — Corrig? — Poi aggiunse: — Me n’ero dimenticato.

Lei deglutì, sentendo che quella semplice frase aveva richiuso una barriera fra di loro. Pensò che lui usava l’impassibilità e il silenzio come uno scudo, una difesa impenetrabile, e si chiese se dietro di esso si celasse l’uomo che conosceva o uno straniero. Osservandola lui parve leggere i suoi pensieri; allungò una mano e le toccò un braccio. Ma d’un tratto lo scudo che aveva negli occhi s’infranse come al ricordo di qualcosa d’informe e terribile, e indifeso girò la testa finché quell’emozione svanì. Sottovoce disse: — Avrei dovuto aspettare prima di rivedere anche te. Ma dovevo… dovevo guardare ciò che per me vi è di più bello, la leggenda di An, il tesoro della sua corte. Dovevo sapere che tu esisti ancora. Ne avevo bisogno.

Le dita di lui le sfiorarono il viso come se la sua pelle fosse fragile quanto l’ala di una farfalla. Ella chiuse gli occhi, premette le mani su quelle di lui e sussurrò: — Oh, Morgon! Cosa, in nome di Hel, pensi che io stia facendo in questa Scuola? — Lasciò ricadere le braccia e si domandò se fosse almeno riuscita a ottenere l’attenzione di lui, oltre quell’armatura fatta di solitudine irteriore. — Io vorrei essere davvero questo per te, se potessi — gemette. — Vorrei essere muta, bella, eterna come la terra di An per te. Vorrei essere come mi ricordavi, senza età, innocente, sempre in attesa nella bianca dimora dei Re di Anuin. Vorrei essere questo per te, e per nessun altro uomo del reame. Ma questa sarebbe una menzogna, e io farei qualunque cosa pur di non mentire a te… te lo giuro. Un enigma può essere una storia così familiare che i tuoi occhi smettono di vederlo: è lì, semplicemente, come l’aria che respiri, come i nomi degli antichi Re che echeggiano nei corridoi della tua dimora, come il sole che ristagna pigro sui pavimenti dove cammini pensando ad altro, finché un giorno ti accade di guardarlo. E allora qualcosa senza forma e senza voce dentro di te ti apre un terzo occhio, e tu lo vedi come mai lo avevi visto prima. Allora non ti resta che la consapevolezza di una domanda senza nome dentro di te, e quella storia non è più priva di significato, ma è la sola cosa al mondo che da quel momento in poi significa qualcosa. — Tacque per riprendere fiato. Lui le aveva passato un braccio attorno alla vita e la sua stretta non era leggera. Il suo volto tornò finalmente a essere familiare, incerto, interrogativo.