CAPITOLO NONO
All’alba partì da Caithnard a cavallo, e per un giorno e mezzo viaggiò nell’immensa foresta di querce che costituiva il confine settentrionale di Hel, sforzandosi come mai aveva fatto prima di tendere tutti i poteri e tutta la consapevolezza della sua mente. Sin da quando era penetrata nella boscaglia aveva sentito la presenza di qualcosa che si muoveva molto più avanti, qualcosa d’indistinguibile, qualcosa che sembrava avere un impellente bisogno di rapidità e di segretezza. E la seconda notte, sveglia e all’erta nel buio, le era parso di vedere per un terribile istante quella che poteva essere la forma di un’enorme bestia sollevarsi nel chiarore lunare; una potente, inarrestabile e rabbiosa mente focalizzata su un singolo pensiero di distruzione.
Il giorno dopo, a meridione della foresta, si fermò a guardare le vaste terre di Hallard Albanera, e si chiese quale forma Morgon avesse assunto per attraversarle. I pascoli digradavano pian piano verso il fiume che scorreva accanto alla dimora del Nobile, e all’apparenza sembravano un’oasi di tranquillità, ma su di essi non si vedeva neppure un animale. In lontananza poteva udire una muta di segugi che abbaiavano, in un coro rauco e funereo, selvaggio e interminabile. Nei campi dietro la casa non c’era neppure un contadino al lavoro, e questo non la sorprese. Quell’angolo di Hel era stato l’ultimo campo di battaglia nelle ormai quasi dimenticate guerre fra Hel e An; aveva dato sostegno ai suoi soldati in un’interminabile serie di scontri feroci e disperati, finché Oen di An, risalendo a marce forzate da Aum sei secoli addietro, aveva quasi sprezzantemente travolto gli ultimi capisaldi della resistenza e fatto decapitare l’ultimo Re di Hel, che aveva trovato rifugio proprio lì. Da allora storie e leggende avevano tormentato quella terra; un acquazzone poteva ancora disseppellire un’antica spada corrosa dalla ruggine, o il manico spezzato di una lancia inanellato d’oro. In tanti secoli il Re Farr di Hel, privo della testa, aveva avuto tutto l’agio di ponderare sui lutti che aveva subito e, libero alfine dalla terra, non ci avrebbe messo molto tempo per tirar fuori le sue ossa dai campi di Hallard. Il caos di voci che Raederle aveva udito due notti prima s’era smorzato in una spaventosa quiete: la morte era libera, vigile, e occupata a tessere i suoi piani.
Mentre attraversava a cavallo i pascoli più alti di Hallard vide un gruppo di cavalieri uscire dalla boscaglia, portandosi sulla stradicciola che lei seguiva. Col batticuore tirò le redini, e poi riconobbe la bruna e muscolosa figura di Hallard Albanera, che torreggiava sui suoi uomini. Erano armati, ma privi d’armatura, e le loro teste nude e le leggere spade che portavano al fianco davano un’impressione di provvisorietà. La ragazza poté avvertire la loro esasperazione e la loro scarsa sicurezza di sé. Quando Hallard girò la testa e la vide, da lontano, riuscì a sentire il sobbalzo che ci fu nei suoi pensieri, e fra essi balenare il nome di lei.
Strinse le redini senza saper che fare, benché l’uomo avesse messo il cavallo al galoppo su per il pendio verso di lei. Non aveva il minimo desiderio di mettersi a discutere con lui; e tuttavia, rifletté, aveva bisogno di notizie. Restò immobile, e da lì a poco l’uomo arrestò bruscamente il cavallo dinnanzi a lei; era massiccio, abbronzato, e grondava di sudore nell’afa di quel pomeriggio silenzioso. Per un attimo parve stentare a trovare le parole, quindi esclamò: — Qualcuno dovrebbe scorticare quel comandante di nave. Dopo averti portata fino a Isig, adesso ti lascia partire da Caithnard senza scorta, da sola in questa terra, con quello che sta succedendo! Hai avuto notizie di tuo padre?
Lei scosse la testa. — Niente. Va tanto male?
— Va malissimo. — L’uomo socchiuse le palpebre. — I miei segugi stanno seguendo non so che pista da due giorni interi. Metà del mio bestiame è sparito; i miei campi di grano sembra che siano stati arati con macine da mulino; e gli antichi sepolcri nei campi meridionali sono stati appiattiti sul terreno da qualcosa che non è umano. — La fissò con occhi arrossati dalla mancanza di sonno. — Io non so cosa stia succedendo nel resto di An. Ieri ho mandato un messaggero nell’est di Aum, da Cyn Croeg. Non è riuscito neanche ad attraversare il confine; è tornato balbettando qualcosa su alberi che sussurrano. Ne ho mandato un altro ad Anuin; non so se ci sia arrivato. Ma anche se fosse così, che può fare Duac? Che si può fare contro la morte? — Alzò gli occhi al cielo, come aspettandosi una risposta, poi scosse il capo. — Maledizione a tuo padre! — sbottò, rudemente. — Dovrà combattere le guerre di Aum un’altra volta, se non torna coi piedi sulla terra. La sua autorità regale, il suo governo della terra… lo strapperei via da queste zolle con le mie mani, se sapessi come fare!
— Ebbene — disse lei. — Forse questo è proprio ciò che loro vogliono. I Re morti. Hai già visto qualcuno di loro?
— No. Ma so che sono qua fuori, da qualche parte. E meditano qualcosa. — Accennò alla striscia di boscaglia oltre i pascoli. — In nome di Hel, cosa vogliono fare col mio bestiame? I denti di quei Re sono sparsi per tutti i miei campi. Il teschio di Re Farr ha sogghignato sopra il caminetto del mio salone per dei secoli; dovrà scrostare parecchia fuliggine da quelle mandibole, se vorrà mangiare la carne dei miei vitelli!
Gli occhi di lei abbandonarono i boschi per fissarsi di colpo sul viso di Hallard. — Il suo teschio? — Nella mente le si accese il barlume di un’idea. Hallard annuì stancamente.
— Così si suppone. Un ribelle sfegatato rubò la sua testa dalla dimora di Oen, secondo quella vecchia storia, dopo che Oen l’aveva incoronata e conficcata sulla cima di una picca, che teneva nel salone da pranzo. Anni dopo in qualche modo la testa arrivò da queste parti, con ancora la corona incastrata sul nudo osso del teschio. Mag Albanera, il cui padre era morto in quella guerra, era ancora abbastanza incarognito per vedere in essa un emblema di battaglia, così la fissò, corona e tutto, sopra il grande caminetto. Nessuno l’ha toccata per secoli, tanto che l’oro e l’osso sembrano diventati una cosa sola, inseparabili. Ma io non l’ho levata da lì. Ed è per questo che non capisco — aggiunse, acremente, — perché loro stanno tormentando la mia terra. Sono i miei antenati!
— Qui vennero ammazzati anche molti nobili di An — gli ricordò lei. — Forse c’erano solo loro nei tuoi campi di grano. Hallard, io voglio quel teschio.
— Tu vuoi cosa?
— Il teschio di Farr. Lo voglio.
L’uomo la fissò, e nella durezza del suo sguardo lesse lo sforzo che stava facendo per cercare parole adatte a rimetterla al suo posto. — E perché?
— Tu dammelo.
— In nome di Hel, e per farne cosa? — sbottò lui. Poi cercò di calmarsi. — Scusa, ma… il fatto è che stai cominciando a parlare proprio come tuo padre. E lui ha il dono di farmi uscire dai gangheri. Adesso guardiamo di comportarci da persone razionali e…