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Rood non ebbe fiato per rispondere. Dall’ingresso era appena entrato, senza far rumore, senza proiettare ombra, in sella a un grande cavallo nero i cui occhi erano morti come quelli del teschio di Farr, un uomo la cui fronte era ornata da una corona sul cui centro splendeva una singola gemma rossa. Era abbronzato, massiccio, muscoloso; i foderi del suo coltello e dello spadone erano intrecciati d’oro; la tunica che portava sopra la cotta di maglia era ricamata con l’antichissimo emblema di An: una quercia verde, tagliata da un fulmine di luce nera. Aveva lasciato il suo seguito all’esterno, cavalieri che dovevano essere emersi dai campi e dai frutteti intorno ad Anuin. Dietro costoro Raederle poté vedere le guardie di Duac e i servi che cercavano di spezzare la loro fila per gettarsi avanti. Ma avrebbe più facilmente sfondato un muro di pietra. L’effetto che l’arrivo dell’uomo incoronato ebbe sui fantasmi della sala fu immediato: tutte le loro spade vennero sguainate di colpo. Farr si mosse avanti livido in faccia, mentre lo squarcio rosso che gli inanellava il collo sembrava pulsare e gettare sangue, e protese l’arma. Ignorando Farr gli occhi del Re morto si spostarono lentamente sui presenti, fermandosi su Duac. Il cavallo nero si arrestò.

— Oen!

L’esclamazione di Rood gli guadagnò un attimo di attenzione da parte dell’antico Re, ma subito egli tornò a guardare Duac. Lo salutò inchinando appena la testa, quindi in tono duro e tuttavia controllato disse: — La pace sia su questa casa e coloro che la abitano. Possa il disonore non entrarvi mai. — Tacque, senza distogliere lo sguardo dal volto di Duac, quasi che avvertisse in lui quell’istinto senza tempo basato sulle leggi della terra e insieme a ciò anche qualcos’altro. Ebbe una secca risata priva d’allegria. — Tu hai una faccia che viene dal mare. Ma tuo padre è più fortunato di me. Non hai preso molto dal mio Erede, salvo una somiglianza.

Palesemente turbato Duac stentò a ritrovare la voce. — Pace… — La parola tremolò nell’aria, ed egli deglutì. — Mi auguro che tu sia venuto a portare la pace in questa casa, e che andandotene tu lasci la pace dietro di te.

— Questo non posso farlo. C’è un giuramento che mi lega, oltre la morte.

Duac socchiuse gli occhi, e alle labbra gli affiorò un’imprecazione quasi inudibile. Oen si decise a voltarsi verso Farr; i loro occhi si incontrarono attraverso la stanza, per la prima volta dopo sei secoli durante i quali s’erano sognati l’un l’altro nel buio dei loro sepolcri. — Io ho giurato che fin quando i Re regneranno ad Anuin, la testa di Farr di Hel avrebbe regnato nella mia mensa, in cima a una picca.

— E io ho giurato — ringhiò Farr, — che non avrei chiuso occhio nella mia tomba finché l’ultimo Re di Anuin non giacerà nella sua.

Oen inarcò le folte sopracciglia. — Già una volta hai perduto la tua testa. Io ho udito che una donna di Anuin ha portato il tuo cranio da Hel fin qui, e a sua vergogna ha aperto le porte di questa casa ai morti di Hel. Io sono venuto per ripulirla da questa spazzatura. — Gettò un’occhiata a Raederle. — Dammi quel teschio, donna!

La ragazza restò stupita dal disprezzo che l’uomo aveva nella voce e negli occhi, quegli occhi freddi e calcolatori che avevano sorvegliato la costruzione di una torre presso il mare, oltre le cui finestre sbarrate si preparava la prigione del suo Erede. — Tu! — sussurrò. — Tu che porti vuote parole in questa casa, cosa ne hai mai saputo della pace? Tu hai vissuto incatenato alla tua mente ristretta e alle tue guerre. E morendo hai lasciato dietro di te ben altro enigma, ad Anuin, che una faccia color del mare. Sei venuto per batterti con Farr sul suo teschio, come due cani che altercano su un osso. Dici che io ho tradito la mia casa: cosa ne sai dei tradimenti? Sei uscito dalla terra per vendicarti: cosa ne sai della vendetta? Ti sei illuso che avresti visto la fine degli strani poteri di Ylon quando l’hai rinchiuso in quella torre, con tanta scarsa compassione e con ancor minore intelligenza. Avresti dovuto capire che non potevi mettere le catene alla sua angoscia e al suo dolore. Hai aspettato dei secoli per batterti ancora con Farr? Ebbene, io ti dico che prima di snudare la tua spada in questa casa dovrai batterti con me!

Raederle strappò la luce dagli scudi, dalle armature, dalle corone ingioiellate e dalle mattonelle del pavimento, e circondò Oen e il suo cavallo in un lampeggiante cerchio di bagliori. Si guardò attorno in cerca di una sorgente di fuoco, ma nel salone non era accesa neppure una candela. Fu così costretta a cercare in sé il ricordo della fiamma, di quell’elemento fluttuante e informe che aveva padroneggiato sotto lo sguardo incollerito di Farr. Scagliò l’illusione del fuoco intorno alle forme illusorie dei morti. Spalancò le mani e mostrò loro come sapeva plasmarlo, facendolo fiammeggiare alto nell’aria e mandandolo ad espandersi in onde roventi sul pavimento. Li circondò di lingue ardenti e incalzanti, inducendoli a stringersi l’uno accanto all’altro per sfuggirgli. Poi arse con sbuffi di fiamma i loro scudi e li vide immediatamente gettarli via come ustionati, mandandoli a rimbalzare senza rumore per il salone. Inanellò di fuoco le loro corone, e i Re se ne liberarono scaraventandole in aria come ruote di fiamma. Con gli orecchi della mente udì lontano e indistinto lo squittire degli uccelli marini. Poi in lei crebbe sonora la grande voce del mare.

Il suo echeggiare le vibrava nell’anima, le fluiva dalle mani con le fiamme da lei plasmate. Riconobbe il lento frangersi e brontolare delle onde, il vuoto lamento del vento fra le sbarre spezzate della finestra. La musica dell’arpa s’era spenta, la torre era vuota. Tornò a volgere la sua attenzione a Oen; semiaccecata dai suoi pensieri di fuoco vide la sua figura come un’ombra, un po’ ricurvo sul suo cavallo. E una furia che non le apparteneva ma che emergeva dalla sua eredità di sangue cominciò a gonfiarsi in lei, simile a un’enorme ondata che avrebbe potuto strappar via la torre dalle sue radici di roccia e scaraventarla in mare.

La furia stessa le elargì oscure visioni dei poteri nascosti in lei. Le sussurrò come avrebbe potuto spezzare in due la solida pietra del pavimento, e come mutare quella sottile spaccatura in un nero abisso illusorio nel quale sprofondare il fantasma di Oen, senza nome e senza memorie. Le mostrò come avrebbe potuto sbarrare le porte e le finestre della sua dimora, chiudendo dentro i vivi come i morti; come creare l’illusione di una porta spalancata su un’illusione di libertà. Le mostrò come scindere le diverse sensazioni di tristezza, disperazione e malinconia che sentiva giungerle dal mare, dal vento e dal ricordo di quell’arpa, per poi intrecciarle nelle pietre e nelle ombre della casa affinché nel suo interno nessuno riuscisse a ridere mai più. Mentre nutriva la luce e il fuoco sentì le sue angosce mescolarsi a una rabbia e a un’agonia molto più antica, diretta contro Oen, finché non fu quasi capace di separarle di nuovo; a stento adesso riusciva a ricordare che Oen era soltanto un vecchio spettro di An, e non già il vivo, terribile, spietato personaggio rimasto nella memoria di Ylon.

D’un tratto si sentì sperduta, trascinata e dominata dalla forza di un odio che apparteneva a qualcun altro. Lottò contro di esso, cieca e spaventata, senza sapere come spegnere il violento impulso di distruzione diretto contro Oen. Il suo terrore si mutò in angoscia; era prigioniera, come Oen aveva imprigionato Ylon, dell’odio spietato e dell’incomprensione. Capì che, prima di distruggere Oen, prima di liberare qualcosa di incompatibile con le leggi della terra di An nella dimora dei suoi Re, avrebbe dovuto costringere lo spettro di Ylon, risorto dentro di lei, a vedere con chiarezza e per la prima volta l’eredità che ambedue portavano, e a comprendere che quel Re era stato semplicemente un essere umano incatenato alle sue ambizioni.