Uno alla volta, con uno sforzo terribile, isolò i volti dei Re nell’alone di fuoco che li circondava. Strappò fuori dal nero vuoto della rabbia e della disperazione le loro identità e le loro storie, li chiamò ciascuno per nome mentre essi la fronteggiavano muti nella sala, senza corone e senza armi: Acor, Ohroe, maledetto dal proprio dolore per i suoi figli, Nemir che parlava il linguaggio dei maiali, Farr che aveva patteggiato con lei per un teschio vecchio di seicento anni, Evern che era morto insieme ai suoi falchi mentre difendeva la sua fortezza. Il fuoco lingueggiò sempre più basso fino a svanire intorno a loro, tornando ad essere soltanto luce solare sul pavimento. Ella fu di nuovo in grado di vedere fra i Re la figura dell’arpista del Supremo. E vide Oen. L’uomo non era più in sella, ma in piedi accanto al suo cavallo. E poi vide la spaccatura nera che gli passava fra le scarpe tagliando in due l’intera pavimentazione della sala.
La ragazza lo chiamò per nome. Quella parola parve rimetterlo nella prospettiva che gli apparteneva: il fantasma spaventato di un uomo che era stato secoli addietro un Re di An. L’entità che s’era svegliata in lei emanò un’ultima stanca sensazione d’odio contro Oen, e contro il potere chiarificatore di lei; ebbe un sussulto ancora e quindi rifluì nel nulla come un’onda esausta nella risacca. La lasciò libera, ma con lo sguardo cupamente fisso sul pavimento squarciato, a chiedersi quale nome avrebbe portato per il resto dei suoi giorni in quel salone.
D’un tratto s’accorse di tremare così forte che le gambe le si piegavano. Accanto a lei Rood protese un braccio come per sostenerla, ma parve anch’egli quasi distrutto e non fu capace di toccarla. La ragazza vide che Duac fissava la spaccatura del pavimento. Il fratello rialzò la testa e la guardò. E un singhiozzo le incrinò la gola, poiché nei suoi occhi lesse che non sapeva più darle alcun nome. Il suo potere aveva fatto di lei una creatura senza terra e senza nome, lasciandola priva di tutto ciò che era stato suo. Lo sguardo della ragazza cadde su un’ombra che s’era allungata al suolo fra di loro. E lentamente capì che in quel salone, fra le figure dei Re morti e privi di ombra, stava entrando qualcun altro che possedeva un’ombra scura come la notte.
Si volse. Inquadrato sulla soglia oltre la quale il sole stava tramontando c’era il Portatore di Stelle. Era solo; nel cortile il seguito di Oen era scomparso. La stava fissando, e dall’espressione che aveva negli occhi capì che aveva visto quanto era accaduto lì. Disperata ricambiò il suo sguardo, ma lui disse soltanto: — Raederle. — Non era un avvertimento, né un giudizio, semplicemente il suo nome, e lei avrebbe voluto piangere per il sollievo di sentirlo pronunciare e riconoscerlo come suo.
Finalmente lui si mosse e avanzò oltre la soglia. Abbigliato con una tunica dimessa, in apparenza disarmato, venne avanti quasi con l’aria di chi non vuol disturbare fra le sgargianti figure dei Re, e tuttavia uno dopo l’altro essi furono indotti a dedicargli tutta la loro attenzione. L’oscura forza che s’era aggiunta al loro odio per spingerli fino ad Anuin non era più l’ala nera della magia, ma qualcosa che ora essi potevano vedere. Gli occhi di Morgon, spostandosi da volto a volto, trovarono quello di Deth. Si fermò. Raederle, con la mente aperta e vulnerabile ai pensieri di lui, sentì l’urto con cui i ricordi lo scuotevano fino in fondo all’anima. Lentamente Morgon riprese a camminare, ed i Re si scostarono senza produrre un rumore, facendo il vuoto intorno all’arpista. A capo chino Deth sembrava tendere l’orecchio al passo finale del lungo viaggio che li aveva portati entrambi lì dal Monte Erlenstar. Quando Morgon gli fu davanti rialzò il viso, e il sole che entrava dal portone parve denudare spietatamente le sue rughe.
Con voce piatta disse: — Quale concetto della giustizia hai strappato dalla mente del Supremo, là al Monte Erlenstar?
Morgon sollevò una mano e colpì il volto dell’arpista con un manrovescio così violento che perfino Farr sbatté le palpebre. Deth fece qualche passo di lato, piegato in due, poi si raddrizzò con uno sforzo.
In tono rauco e tormentato Morgon ringhiò: — Concetti ne ho imparati fin troppi. Da lui e da te. E la giustizia non è un argomento che mi interessa. A me interessa ammazzarti. Ma visto che siamo nella casa di un Re, e che il tuo sangue dovrà sporcare il suo pavimento, la semplice cortesia mi impone di spiegare perché devo spillartelo dalle vene: mi sono stancato di sentirti suonare l’arpa!
— Almeno rompeva il silenzio.
— C’è qualcosa di meglio al mondo che il tuo silenzio? — Quelle parole echeggiarono avanti e indietro fra i muri del salone. — Nel buio di quella montagna ho gridato tanto che avrei ridotto al silenzio chiunque, ma non la tua arpa. Sì, sei stato ben addestrato dal Fondatore. Non c’è niente in te che io possa toccare. Salvo che la tua vita. E mi domando se tu non dia valore neanche a quella.
— Sì. Per me ha valore.
— Non pregare per la tua vita. Io ho pregato Ghisteslwchlohm che mi regalasse la morte, e lui mi ha ignorato. Questo è stato il suo sbaglio. Ma lui ha avuto abbastanza accortezza da scappare. Tu avresti dovuto cominciare a scappare il giorno stesso in cui mi hai condotto in quella montagna. Tu non sei uno sciocco. Dovresti aver saputo che il Portatore di Stelle sarebbe sopravvissuto anche là dove un povero Principe di Hed sarebbe morto. E invece sei rimasto, e mi hai fatto ascoltare le tue canzoni e quelle di Hed, al punto che piangevo anche nel sonno. Se avessi potuto strappare le corde dalla tua arpa solo con il pensiero…
— Lo hai fatto. Più di una volta.
— E non hai avuto l’intelligenza di fuggire!
Nell’assoluto silenzio della dimora reale sembrava che intorno ai due uomini aleggiasse uno strano sipario d’intimità. I Re, coi loro volti segnati dalle battaglie e dalle amarezze, apparivano attentissimi alla scena, quasi che stessero osservando in essa segmenti delle loro vite passate. Duac, Raederle ne fu conscia, stava di nuovo tormentandosi col pensiero del Fondatore nella dimora del Monte Erlenstar. Rood appariva invece più calmo, anche se il suo volto era inespressivo; si limitava a osservare ogni tanto deglutendo qualcosa che avrebbero potuto essere le sue lacrime nascoste.
L’arpista aveva riflettuto qualche istante sull’ultima frase, poi rispose: — No. Io sono uno sciocco. Forse ho puntato sul fatto che tu avresti ignorato il servo per inseguire il padrone. O forse contavo che malgrado tutto, anche se avevi perso il governo della terra, in te fosse rimasto qualcuno dei princìpi appresi alla Scuola degli Enigmi.
Morgon strinse i pugni, ma si trattenne ancora. — Cos’hanno a che fare gli sterili princìpi di una Scuola abbandonata con la mia vita e con la tua morte?
— Forse niente. Era soltanto una mia riflessione. Come la musica della mia arpa. Una questione astratta, che un uomo armato di spada difficilmente perde tempo a contemplare. Ma le azioni implicano dei princìpi.
— Parole!
— Forse.
— Tu eri un Maestro: le questioni astratte non ti hanno impedito di rinnegare i princìpi morali ed etici della Scuola. Li hai lasciati per l’etica del Fondatore di Lungold: il linguaggio della verità è il linguaggio del potere. Verità sul nome e sull’essenza delle cose. E hai trovato che l’essenza del tradimento era più di tuo gusto. Chi sei tu per giudicare me, se io trovo la vendetta, o il delitto, o la giustizia, o qualunque nome tu voglia metterci sopra, più di mio gusto?
— E chi può pretendere di giudicarti? Tu sei il Portatore di Stelle. Mentre mi davi la caccia attraverso Hel, Raederle ti ha scambiato per Ghisteslwchlohm.
La ragazza lo vide ritrarsi lievemente. Rood mormorò, con voce arrochita: — Morgon, princìpi o non princìpi, ti giuro che se non lo uccidi tu lo farò io.
— Come ho già detto, è una questione astratta. L’idea di giustizia di Rood è per certi versi molto più lineare. — L’osservazione di Deth suonò esausta, secca, definitiva.