Con una smorfia d’agonia che gli torceva la faccia Morgon gridò, come se glielo gridasse dalle viscere del Monte Erlenstar: — Cos’altro ti aspettavi di avere da me? — Allungò una mano nell’aria, e la grande spada stellata gli si materializzò in pugno. Ne afferrò l’elsa con la destra e con la sinistra, sollevandola in un arco lampeggiante. Raederle fremette, mentre quell’immagine le si stampava come un marchio nei pensieri: l’arpista disarmato, immobile, lo sguardo alzato a seguire il movimento dell’arma che raccoglieva gli ultimi raggi del sole, e la potenza muscolare di Morgon che rigido di furia portava la lama all’apice di quella traiettoria prima di vibrarla in un fendente terribile. Poi l’arpista riabbassò gli occhi sul volto di Morgon. Sussurrò: — A loro era stato promesso un uomo di pace.
La spada ondeggiò stranamente, gettando sulle pareti rapidi riflessi di luce rosata. L’arpista chinò la testa sotto quel micidiale bordo affilato con un movimento mite che a Raederle parve allo stesso tempo familiare e orribile nelle sue implicazioni, più spaventoso di qualunque altra cosa elle avesse visto dentro di sé o in Morgon. Dalla sua gola scaturì un gemito, una protesta contro la docilità con cui l’uomo si sottometteva, e sentì una mano di Duac afferrarla per una spalla. Ma non sarebbe stata ugualmente capace di muoversi. La luce abbandonò di colpo la lama. La spada piombò in basso con un fendente che sibilò nell’aria e risuonò come una campana sul pavimento, allorché la punta strappò una vampata di scintille azzurre dalle mattonelle. Le mani di Morgon si aprirono, lasciandola cadere al suolo, ed essa rimbalzò, fermandosi con le tre stelle rivolte in basso.
Nel salone l’unico rumore rimase l’ansito di Morgon, che gli scaturiva come veleno dai polmoni contratti. Piazzandosi le mani sui fianchi fronteggiò l’arpista, senza muoversi né dir parola. Deth fu scosso da un tremito. Stranamente, soltanto allora il suo volto si sbiancò d’improvviso. Mosse la bocca come se volesse parlare, ma la sua voce parve morire contro il furibondo silenzio di Morgon. Fece un passo indietro, verso la porta, in un movimento che era una muta domanda. Poi abbassò gli occhi a terra. Girò su se stesso, strinse i pugni e s’incamminò rapidamente fra le immobili figure dei Re, uscendo dal salone: a capo chino scese i gradini che conducevano nel cortile, e si allontanò.
Gli occhi che non vedevano affatto ciò che aveva davanti, Morgon fissò quell’assemblea di vivi e di morti. Il groviglio esplosivo dei suoi istinti, rimasto irrisolto, sembrava aleggiare nell’aria come un pericoloso incantesimo in cerca di qualcos’altro su cui abbattersi. Accanto a Rood e a Duac, Raederle non osò avvicinarlo in quell’atmosfera minacciosa, e si chiese con quali parole avrebbe potuto riportare Morgon fuori dal nero labirinto di verità spiacevoli in cui l’arpista aveva finito per lasciarlo. Sembrava non riconoscere più nessuno di loro, li fissava come avrebbe potuto fissarli uno straniero dai poteri pericolosi; ma mentre attendeva di vedere quale forma avrebbero preso quei poteri capì che essi erano già nella loro forma dentro di lui, e che egli aveva dato loro il suo nome. Lo pronunciò sottovoce, esitante, non tanto certa di conoscere l’uomo a cui apparteneva:
— Portatore di Stelle!
Lui la guardò; il silenzio in cui s’era chiuso gli scivolò via di dosso quando le sue mani si riaprirono. E il ritorno dell’espressione sul suo volto la indusse a muoversi verso di lui attraverso la sala. Sentì Rood che cominciava a dire qualcosa dietro di lei, ma la sua voce si spense in un ansito rauco, e Duac borbottò alcune parole fra sé. Si fermò di fronte al Portatore di Stelle, gli sfiorò una spalla e vide che quel tocco lo faceva riemergere dai suoi ricordi.
Sussurrò: — A chi era stato promesso un uomo di pace?
Lui ebbe un brivido quando la ragazza lo abbracciò; gettò uno sguardo al teschio che una mano di lei gli aveva poggiato su una spalla. — I bambini…
Raederle sentì il tremito di lui trasmettersi anche al suo corpo, un tremito di superstizioso timore. — I Figli dei Signori della Terra?
— I figli della pietra, in quella caverna nera… — Le strinse con forza le spalle. — Egli mi ha dato questa scelta. E io che pensavo che fosse indifeso. Avrei dovuto… ricordare con quale abilità lui sa trasformare le parole in armi mortali.
— Chi è lui? Quell’arpista?
— Non lo so. Ma so questo: voglio dargli un nome. — Per un poco tacque, col volto poggiato a quello di lei. Infine si mosse, disse qualcosa che ella non capì, e girandosi avvertì il contatto dell’osso nudo contro una guancia. Prese il teschio fra le mani. Accigliato percorse il cavo dell’orbita col polpastrello del pollice, poi tornò a fissarla. La sua voce, ancora un po’ rauca, suonò calma.
— Ti ho vista quella notte, nelle terre di Hallard Albanera. Sono stato vicino a te ogni notte, mentre scendevi attraverso An. Nessuno, né vivo né morto, avrebbe potuto toccarti. Ma tu non hai mai avuto bisogno del mio aiuto.
— Ti ho sentito — sussurrò. — Ma ho pensato… ho creduto che tu fossi…
— Lo so.
— Ebbene, allora… allora, che cosa hai pensato che io stessi cercando di fare? — La sua voce si alzò un poco. — Credevi che io intendessi proteggere Deth?
— Questo è proprio ciò che hai fatto, né più né meno.
Lei lo fissò senza parole, ripensando a tutto ciò che le era accaduto in quegli strani e interminabili giorni. Esclamò: — E tu stavi ancora con me, per proteggermi? — Lui annuì. — Morgon, io ti ho detto ciò che sono; e tu hai potuto vedere quale oscuro potere stavo risvegliando dentro di me… ne conoscevi l’origine. Tu sapevi che io sono una consanguinea degli stessi cambiaforma che hanno cercato di ucciderti, ed eri convinto che io aiutassi l’uomo che ti ha tradito… in nome di Hel perché mai avevi ancora tanta fiducia in me?
Le mani di lui, chiuse intorno alla corona d’oro del teschio, strinsero il metallo intarsiato fino a sbiancarsi. — Non lo so. Ho fatto questa scelta, allora e per sempre. E tu, per quanto tempo ancora intendi portare in giro questo teschio?
Lei scosse la testa senza parlare, e allungò una mano per prendere il teschio e ridarlo a Farr. La luce cadde sul piccolo disegno a dodici angoli che le risaltava bianco sul palmo; una mano di Morgon le afferrò bruscamente il polso.
— Questo che cos’è?
Lei resistette all’impulso di richiudere le dita su di esso. — Mi è venuto… è comparso la prima volta che ho preso in mano il fuoco. Per eludere le navi da guerra di Ymris usai una pietra trovata a Pian Bocca di Re, e feci un incantesimo di luce. Mentre ero legata ad esso, guardando dentro la pietra vidi un uomo che a sua volta la teneva in mano e la fissava, come se stesse cercando qualcosa nella sua memoria. Io quasi… io ero già sul punto di scoprire chi era. Ma proprio allora sentii la mente di una cambiaforma dentro la mia, anch’essa in cerca del suo nome, e poi il legame si spezzò. Adesso la pietra è perduta, ma… i suoi contorni mi hanno lasciato questa cicatrice sul palmo.
La mano di lui si riaprì, sostenendole il polso con una strana dolcezza. Alzò gli occhi a guardarlo; la paura che lesse sul suo volto le gelò il cuore. Lui le passò le braccia attorno e la strinse a sé con un tremito, come se temesse che svanisse dalla sua realtà in uno sbuffo di nebbia e che soltanto le sue cieche speranze potessero trattenerla ancora lì.
Un fruscio di metallo sulla pietra li fece voltare entrambi. Duac raccolse la spada stellata dal pavimento, e nel raddrizzarsi si volse a Morgon. — Cos’è quel segno sulla sua mano? — domandò, preoccupato.
Lui scosse il capo. — Non lo so. So soltanto che per un anno Ghisteslwchlohm ha frugato nella mia mente per un frammento di conoscenza, andando avanti e indietro attraverso i miei ricordi in cerca di un certo volto, e di un nome. Potrebbe trattarsi dello stesso che ha visto lei.