Quarantacinque anni sono dunque come un solo giorno per me. Passo circa trent’anni in stato di veglia e poi dormo per altri quindici. Per mia fortuna, non passai i miei primi “giorni” in un periodo di barbarie o di completa disorganizzazione sociale, se no non sarei sopravvissuto ai miei primi sonni. Ma sono sopravvissuto, e da allora ho imparato a provvedere alla mia stessa sopravvivenza. Da allora, ho dormito circa quattromila volte, e sono sopravvissuto.
Un giorno, forse, sarò sfortunato. Un giorno, forse, malgrado certe precauzioni qualcuno scoprirà la caverna o la cella in cui mi ritiro segretamente a dormire, e vi penetrerà. Non che questo sia probabile, comunque: ho anni di tempo per allestire ciascuno di questi ricoveri, e sono forte dell’esperienza di quattromila sonni. Potreste passarci davanti mille volte senza intuirne l’esistenza, e se anche la sospettaste non riuscireste ad entrarvi.
No, se qualcosa deve succedermi, è molto più probabile che mi succeda nei miei momenti di veglia e di attività che non in quelli di sonno. Anzi, è quasi un miracolo che io sia sopravvissuto così a lungo, pur con le tecniche di sopravvivenza che ho ideato.
Ottime tecniche, peraltro. Sono sopravvissuto a sette delle peggiori guerre atomiche — e superatomiche — della storia, di quelle che hanno ridotto la popolazione della Terra a pochi selvaggi riuniti attorno ai rari fuochi delle poche zone ancora abitabili. In altre epoche sono stato in cinque galassie lontane dalla nostra.
Ho avuto diverse migliaia di mogli ma sempre una alla volta, poiché sono nato in un’epoca monogamica e l’abitudine mi è rimasta, e ho cresciuto diverse migliaia di figli. Certo, non ho mai potuto stare con una moglie per più di trent’anni senza lover sparire ma trent’anni sono più che sufficienti, specialmente se lei invecchia a un ritmo normale e io invece impercettibilmente. Oh, ci sono dei problemi, ovviamente, ma sono sempre riuscito a risolverli. Quando mi sposo, sposo sempre una ragazza che per quanto possibile sia più giovane di me, in modo che la disparità non diventi troppo evidente. Poniamo che io abbia trent’anni: sposerò una ragazza di sedici. Quando poi giungerà l’ora di lasciarla, lei avrà quarantasei anni, io ancora trenta. Quando mi sveglio, poi, è meglio per entrambi e per tutti che io non mi faccia più vedere: se è viva, avrà più di sessant’anni, e sarebbe un bel colpo per lei veder risorgere un marito ancora giovane. E poi non le ho fatto mancare niente, è una vedova ricca, ricca in denaro o in quale che sia la cosa che rappresenta la ricchezza nella sua epoca. A volte si tratta di monili e di punte di freccia, a volte di un granaio pieno e una volta — ci sono state delle civiltà balorde — mi è capitato che si trattasse di scaglie di pesce! Non ho mai trovato difficoltà nell’ottenere il denaro — o il suo equivalente — che mi era necessario, e più. Dopo qualche migliaio d’anni di pratica, la difficoltà sta caso mai nel sapere quando fermarsi, nel non diventare troppo ricchi per non suscitare attenzioni imbarazzanti.
Per ovvie ragioni, sono sempre riuscito a comportarmi così. Per motivi che in seguito comprenderete, non ho mai cercato il potere, e dopo qualche centinaio d’anni ho sempre evitato che la gente potesse considerarmi diverso da essa. Figuratevi che tutte le notti passo qualche ora pensando, fingendo di dormire.
Ma tutto questo non conta, come io stesso non conto. Vi racconto tutto questo solo perché comprendiate come io sappia quanto vi dirò.
E quando ve lo dirò, non sarà perché starò cercando di vendervi qualcosa. Anche se lo voleste, si tratta di qualcosa che non potete cambiare, e quando capirete cos’è non vorrete cambiarla.
Non sto cercando d’influenzarvi o di guidarvi, in quattromila esistenze sono stato tutto, ma mai un leader. L’ho evitato. Oh, spesso per i selvaggi sono stato un dio, ma dovevo esserlo per sopravvivere. Usavo quella che a loro sembrava magia solo per mantenere un certo livello d’ordine, ma mai per guidarli o per trattenerti. Se insegnavo loro ad usare l’arco e le frecce, era solo perché la selvaggina era scarsa, avevamo fame e la mia sopravvivenza dipendeva dalla loro. Conoscendo l’ordine delle cose, non ho mai cercato di turbarlo.
Quello che vi dirò non turberà l’ordine delle cose.
Ecco qua: la razza umana è il solo organismo immortale dell’universo.
Nell’universo ci sono state e ancora ci sono altre razze, ma tutte si sono estinte o si estingueranno. Una volta, centomila anni fa, le abbiamo contate tutte, grazie ad uno strumento che rivelava la presenza dell’intelligenza, per aliena e lontana che fosse, e forniva anche una valutazione delle sue potenzialità. Cinquantamila anni dopo, quello strumento fu riscoperto.
C’era più o meno lo stesso numero di razze di prima, ma solo otto di esse erano le stesse di cinquantamila anni prima, e tutt’e otto erano senescenti, decrepite: avevano superato l’apice del proprio splendore e si stavano estinguendo.
Erano giunte al limite delle proprie potenzialità — c’è sempre un limite — e ormai non potevano che estinguersi. La vita è dinamica: a qualsiasi livello, la staticità significa estinzione.
È proprio questo che sto cercando di dirvi, in modo che non dobbiate mai più aver paura. Solo una razza che periodicamente si autodistrugge insieme al proprio progresso e torna alle origini può sopravvivere a più di — poniamo — sessantamila anni di vita intelligente.
In tutto l’universo, solo la razza umana ha raggiunto un livello d’intelligenza senza raggiungere anche un alto livello di sanità mentale. Siamo unici. Siamo già più antichi di almeno cinque volte di qualsiasi razza mai esistita, e questo perché non siamo sani di mente. A volte, l’uomo ha intuito che la follia è divina, ma solo ai più alti livelli di cultura esso si rende conto di essere collettivamente folle, e che, volente o nolente, è condannato per l’eternità ad autodistruggersi e a rinascere dalle proprie ceneri.
La fenice, l’uccello che periodicamente s’immola su una pira fiammeggiante per poi rinascere e vivere per un altro millennio e che eternamente s’uccide e rivive, è un mito solo in senso metaforico: essa esiste, e ce n’è un solo esemplare.
La fenice siete voi.
Nulla potrà mai distruggervi, ora che — nel corso di tanti periodi di splendore — il vostro seme è giunto sui pianeti di mille soli e in cento galassie, per riprodurre per l’eternità ciò che ebbe inizio centottantamila anni fa, almeno credo.
Non ne posso essere completamente certo, poiché ho visto come i venti o trentamila anni che intercorrono tra la caduta di una civiltà e l’ascesa della successiva possano cancellare ogni traccia. In venti o trentamila anni, i ricordi diventano leggende, le leggende diventano superstizioni e infine persino le superstizioni vengono dimenticate. I metalli arrugginiscono e vengono riassorbiti dalla terra, mentre il vento, la pioggia e la giungla corrodono e nascondono la pietra. Gli stessi contorni dei continenti cambiano, i ghiacciai vanno e vengono, e quella che ventimila anni prima era una città è ora ricoperta da miglia e miglia di terra o d’acqua.
Dunque, non posso esserne certo. Forse la prima guerra finale di cui fui testimone non fu la prima: forse altre civiltà erano nate e si erano spente prima di me.
Se davvero è così, tutto ciò non fa che rafforzare la mia tesi: può darsi che il genere umano sopravviva da più dei centottantamila anni di cui sono stato testimone io, può darsi che sia sopravvissuto a più dei sei conflitti finali che hanno avuto luogo da quando ho creduto dl essere stato io il primo a scoprire la pira della fenice.
Ma il passato non conta: il nostro seme è così diffuso tra le stelle che se anche il nostro sole morisse o diventasse una nova noi non avremmo fine. Lur, Candra, Thragan, Kah, Mu, Atlantide: queste sono le civiltà che ho conosciuto, scomparse totalmente come tra ventimila anni o poco più scomparirà anche questa civiltà. Eppure, qui o in altre galassie, la razza umana sopravviverà e vivrà per sempre.