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«Nordico!» La sua voce tremante era quasi inaudibile. «Per questo, sarai dato in pasto all’Oscuro!»

«Forse,» disse Teseo, «ma prendi il bambino.»

Alta, sprezzante, con la rossa impronta di sangue sul braccio, lei non si mosse. Teseo la spinse. Lei cadde nel canale, mise le mani avanti, per attutire la caduta, e si coprì di fango.

Ansante, in silenzio, lei si rimise lentamente in piedi. Le mosche volarono intorno a lei, il fango le colò dalle mani e sul vestito. Cercò di uscire dal canale di scolo. Teseo la fermò, con la punta rossa della sua spada.

«Il bambino,» ordinò, «Madre di Tutti!»

Per un istante, i suoi occhi verdi lo fissarono, enormi per lo stupore. Poi si oscurarono, e qualcosa brillò nella loro nebulosa profondità. Le sue mani infangate si strinsero, e poi, lentamente, si schiusero. Senza parlare, allora, lei si chinò, e prese il piccolo corpo inerte tra le braccia.

Teseo le strinse il gomito, l’aiutò a risalire sul palanchino.

«Così, Cibele,» mormorò, «cominci adesso a provare di essere davvero madre. Ma la prova non è compiuta, e ci incontreremo di nuovo, dopo i giochi.»

Le rosse labbra si schiusero, ma non ne uscì alcun suono.

Un altro corno suonò, e dal fondo della strada venne un rumore di zoccoli e un clangore di armi. Stringendo la Stella Cadente, Teseo si allontanò dal palanchino bianco. Scorse il viso esangue di Snish, che guardava furtivamente dalla porta di una taverna.

«Bene, ciabattino,» gridò, «non c’era alcun bisogno di offrirsi volontario!»

CAPITOLO IX

Teseo simulò una difesa, com’era necessario. In effetti, essendo gli etruschi dei grandi guerrieri, poté rendere il tentativo molto vigoroso, senza d’altronde correre il pericolo di riuscire a fuggire.

Un ufficiale in carrozza, dalle vesti e dall’armatura splendide, era seguito da una dozzina di uomini a piedi. Lasciò la carrozza in un angolo della strada, con uno schiavo a tenere i cavalli, e guidò sei uomini verso Teseo. Gli altri svanirono, e l’acheo pensò che avessero preso una via traversa, per tagliargli poi la ritirata, sbucandogli alle spalle.

Una dozzina di vicoli e di porte oscure si aprivano, invitanti, come se volessero tentarlo a scegliere la più sicura via di fuga, ma Teseo rimase immobile, in attesa. Tre armigeri avanzarono, tenendo levati gli scudi, e impugnando le spade.

In attesa, Teseo guardò di nuovo Arianna. Uno degli schiavi era pronto ad aiutarla a risalire sul palanchino. Ma lei era in piedi nel fango, accanto al suo veicolo, e stringeva ancora tra le braccia il piccolo corpo bruno, sporco di fango e di sangue. Gli occhi verdi della dea erano fissi su Teseo.

«Aspetta, schiavo!» Teseo colse il mormorio della sua voce. «Lasciami vedere come combatte il nordico.»

Lui combatté. La Stella Cadente si aprì un varco negli scudi degli etruschi, e la sua lama sottile sfavillò nell’aria, più volte. Un uomo, e poi un altro, caddero dietro la muraglia degli scudi.

Se avesse veramente cercato di fuggire, Teseo avrebbe dovuto approfittare del varco che gli veniva offerto, e dallo scompiglio che per un istante regnò tra le file degli etruschi. Ma lui rimase immobile, permettendo ai nemici di riorganizzarsi, e aspettò il prossimo assalto. E poi sentì di nuovo la voce di Arianna: «Prendete vivo il selvaggio, per i giochi!» La sua lama trovò il cuore di un uomo, dietro la seconda barriera. Alle sue spalle si era formato un altro cordone di uomini. E le due pareti di scudi si avvicinarono inesorabilmente tra loro, prendendolo in mezzo. Delle lame di bronzo raggiunsero Teseo, da entrambe le barriere, ma fu una mazza che giunse sopra di lui, e gli fece perdere i sensi.

Con la bocca amara e la testa che gli pulsava dolorosamente, Teseo riprese i sensi in una segreta, il cui fetore era più penetrante di quello della strada. Si trattava di un pozzo quadrato, profondo venti piedi. Le pareti erano di pietra liscia, ed era impossibile pensare di scalarle. Da una grata, in alto, filtrava una luce grigia e fioca.

La debole luce rivelò i suoi cinque compagni, che grugnivano e russavano sul pavimento di pietra. Erano tutti dei criminali condannati, e lo scoprì aspettando i giochi con loro. Uno schiavo che era stato indiscreto con la moglie del suo padrone. Un cuoco di palazzo che si era ubriacato, e aveva bruciato l’arrosto. Un carpentiere disoccupato, che aveva rubato del pane. Due mercanti che avevano trascurato di pagare alcuni balzelli all’Oscuro. Erano tutti disperati, come se fossero già morti.

Il pozzo non era un luogo piacevole. L’acqua filtrava dalle pareti, e formava grosse pozzanghere sul pavimento poroso. Non esistevano sistemazioni igieniche. Del pane mal cotto e della carne rancida venivano gettati dalla grata, a certi intervalli. Il tempo era segnato dal quotidiano chiarore che appariva in alto, e dal buio che sostituiva la luce grigia.

I giorni trascorrevano, e Teseo capì che il cibo scarso e la triste sistemazione stavano indebolendo anche i muscoli d’acciaio di Gothung. Il suo corpo era rigido, e indolenzito, a causa delle lunghe ore trascorse sul pavimento nudo e duro; la monotonia era una coltre che gli ottenebrava la mente.

Per occupare le monotone giornate, cominciò a speculare sulle possibilità di una fuga… anche se per ottenere quella dura prigionia lui aveva messo in palio la vita.

«È impossibile,» gli assicurò il cuoco. «Da trecento anni, nessun uomo è mai riuscito a fuggire dalle segrete di Minosse. Siamo nudi. Non ci gettano neppure un osso, che possa servirci come strumento o come arma. Le pareti sono di solida pietra, e sotto c’è solo la roccia viva. Soltanto una mosca potrebbe raggiungere la grata. E solo una mosca potrebbe passare tra le sbarre… e la grata di bronzo è chiusa grazie all’incantesimo di uno stregone!»

«Eppure,» insisté Teseo, «io credo che sarebbe possibile fuggire, anche da un pozzo del genere… se fosse necessario!»

Contarono i giorni, fino alla luna di Minosse, quando sarebbero iniziati i giochi. Nessuno parlò loro, attraverso la grata. Anche quando il carpentiere morì, dopo avere tossito per giorni e giorni, le guardie ignorarono il loro richiamo. Il corpo si coprì di muffa, e marcì in un angolo, aggiungendo altro fetore all’ambiente.

Finalmente arrivò il giorno destinato. La grata fu aperta, e dei lacci sibilarono, e li presero uno per uno. Teseo rimase fermo, in piedi sotto la grata, in attesa, mentre gli altri si nascondevano mugolando di terrore. Ma egli fu comunque l’ultimo a essere preso. La corda sibilò sotto le sue braccia, e lo issò verso l’alto. Dei sacerdoti di Minosse, dai neri mantelli, lo trascinarono lungo un cupo corridoio di pietra. Una porta si aprì, lasciando entrare un fiotto di luce accecante. Delle lance lo spinsero, ed egli avanzò, uscendo sotto il sole bruciante.

Il caldo asciutto gli ridonò vita, scaldò il suo corpo nudo, irrigidito com’era dalla pietra umida e dallo sporco. L’aria pulita gli fece l’effetto di un prezioso tonico. Per un istante, gli parve sufficiente essere uscito dal pozzo, e dimenticò che quello doveva essere il momento per il quale aveva combattuto e sognato, e per il quale aveva subito la terribile onta della prigionia.

Debole per la fame e gli stenti patiti, rimase in piedi sotto il sole, e vacillò, mentre la mente gli si ottenebrava. Ci volle un po’ di tempo, prima che riuscisse a distinguere qualcosa. Ma sentì sotto i suoi piedi della sabbia calda e asciutta, mentre tutt’intorno a lui, invisibile ma vibrante nell’aria, si avvertiva un vasto brusio, il mormorio di una grande folla. Più lontano, da qualche parte, un toro stava muggendo. E le sue narici fiutarono l’odore dolciastro del sangue.

Bruscamente, alle sue spalle, dei corni di bronzo suonarono una poderosa fanfara, e la voce secca di un araldo diede inizio a una monotona cantilena:

«Quest’uomo, chiamato Gothung il Normanno, entra ora nei sacri giochi ciclici, per conquistare il trono di Minosse. Che venga perciò sottoposto alle nove prove, per sondare la volontà dell’Oscuro nei suoi tre aspetti.