«Perché l’Oscuro è una divinità dai tre aspetti, toro e uomo e dio. E se tutti e tre gli aspetti dell’Oscuro favoriranno la candidatura di quest’uomo, allora egli sarà posto sul sacro trono di Minosse, e avrà in sposa la Madre di Tutti, Cibele, che alberga in Arianna, figlia di Minosse, e regnerà su Creta come reggente dell’Oscuro. E Minosse andrà nel Labirinto, a incontrare la divinità che l’ha rinnegato. Ma se l’Oscuro non mostrerà il suo favore a quest’uomo, anche sotto uso soltanto dei suoi aspetti, allora egli dovrà morire, e la sua carcassa verrà gettata nel Labirinto, affinché l’Oscuro possa cibarsi della sua anima dannata.»
Quando l’araldo ebbe terminato il suo annuncio, Teseo riuscì a vedere distintamente. Si trovava nella stessa arena ovale che aveva visto insieme a Snish, dalla collina. La sabbia bianca era macchiata di sangue. Diecimila rappresentanti della migliore nobiltà di Ekoros affollavano gli spalti.
Con apprensione, Teseo cercò la splendente massa di bronzo di Talos. Perché il gigante di bronzo, avendolo incontrato quando era giunto sulla spiaggia, e avendo udito la sua menzogna sul temuto capitan Fuoco, avrebbe potuto… se davvero non era uno stupido… scoprire il travestimento di Gothung. Ma Talos non era in vista.
Speranzoso, allora, Teseo cercò con lo sguardo Snish. Dato che il piccolo mago non era venuto a dividere la sua prigionia, Teseo pensava che fosse riuscito a fuggire; e perciò avrebbe potuto essergli utile ancora. Ma Snish, lo sapeva, non aveva il coraggio di tentare un’impresa veramente rischiosa. Non si sorprese, perciò, quando non riuscì a vedere il piccolo babilonese.
Sopra il centro dell’arena vide una sezione di palchi coperti da grandi tende. E riuscì a scorgere dei visi noti. Vide il volto scuro, dal naso aquilino, di Amur l’Ittita, e il volto sottile dell’ammiraglio Phaistro. Riuscì perfino a cogliere il mormorio rauco dell’ittita:
«Mezzo talento, che il primo toro uccide il normanno!»
Gli occhi di Teseo cercarono allora Arianna. Lei sedeva in disparte, in un palco dalle tende bianche. Una bianca colomba era posata sulla sua spalla nuda. Il suo abito era del verde dei suoi occhi.
Lo stava fissando intensamente. Uno strano sorriso le curvava le labbra. Il suo capo fiammeggiante si chinò in un breve gesto, che pareva di viva soddisfazione. Rivolse un cenno agli schiavi che portavano le insegne di Amur, e che erano impegnati a registrare le scommesse.
«Tre talenti,» disse lei, piano, «che il normanno muore nelle prime tre prove.»
Teseo distolse lo sguardo, con uno sforzo, da quella visione di bellezza incredibile e insolente. Vide, alle sue spalle, un palco dalle tende nere. E il cuore gli balzò in petto, quando capì che finalmente stava guardando il temuto stregone che aveva governato Creta per venti generazioni.
Strano ma vero, Minosse non aveva l’aria né del mago né del sovrano. Era un ometto piccolo e grasso, e le mani, che teneva intrecciate sulla bianca veste di seta, erano piccole e grassocce, rosee e ben curate. Aveva il viso rotondo e rosso, e gli occhi erano piccoli, azzurri e allegri. Perfettamente bianchi, sottili come quelli di una donna, i suoi capelli erano lunghi, e acconciati secondo i dettami della moda. Le sue braccia grassocce e rosate erano cariche di braccialetti d’argento.
Teseo lo fissò di nuovo, sbalordito. Perché quell’uomo aveva l’aria del piccolo bottegaio, uno di quelli che rimangono sempre poveri, perché regalano dolci e frutta ai bambini e ai poveri. Non aveva l’aria del dio-stregone che teneva sotto il suo giogo crudele più di mezzo mondo. Ma, ciononostante, era lui quell’uomo.
Poi qualcosa sì mosse, sul fondo del palco, e Teseo vide un’altra figura. Un uomo magro e curvo, vestito completamente di nero, con un viso pallido e cadaverico, e occhi fondi e fiammeggianti. Il viso cadaverico, il corpo ricoperto di nero, tutto questo insieme dava l’impressione di una forza sinistra e spietata. Ecco uno che aveva l’aria del mago e dello stregone, e certamente lo era. Perché costui, pensò Teseo, doveva essere il temuto e infame Dedalo.
I due parlarono per qualche istante, nel palco. Teseo udì le loro voci. Quella di Minosse era dolce e acuta come quella di una donna. La voce dell’altro era sepolcrale, con sottofondi gelidi e rauchi che fecero rabbrividire profondamente Teseo.
Usarono la lingua segreta dei sacerdoti, cosicché Teseo non riuscì a capire. Ma dopo un istante Minosse chiamò con un cenno languido e gioviale uno degli schiavi, e disse, con la sua voce femminea:
«Punto nove talenti sul normanno… uno su ogni gioco, sulla sua vittoria.»
Allora Teseo tremò davvero. Quegli stregoni avevano già scoperto il suo travestimento? Stavano semplicemente giocando con lui? Altrimenti, perché Minosse avrebbe scommesso, con tanta calma, sulla perdita del suo impero, sulla catastrofe e la sconfitta, dopo venti generazioni e più di vittorie? Teseo guardò quel viso gioviale e bonario. Gli occhi azzurri di Minosse restituirono lo sguardo, e il sovrano gli rivolse un allegro cenno d’intesa.
CAPITOLO X
Dei corni d’argento suonarono di nuovo, tra le mani di tre sacerdoti dalle vesti nere. E la voce secca dell’araldo ricominciò la sua cantilena:
«Per prima cosa lo sfidante provi la volontà dell’Oscuro nel suo aspetto di toro. I primi tre gradini sono tre tori selvaggi della Tessaglia, e le loro corna indicheranno la volontà dell’Oscuro.»
La sfida col toro, aveva appreso Teseo dalle storie che aveva udito, era il pericoloso sport nazionale di Creta. Gli atleti, di solito schiavi o prigionieri, dovevano esercitarsi per anni e anni. Spesso, in occasione meno solenni, quella stessa arena doveva essere stata dedicata a quello sport.
Un nero passaggio si aprì all’estremità dell’arena, e un grande toro nero ne uscì, fermandosi poderoso e torreggiante sulla sabbia bianca. Teneva alta la sua testa superba, e il sole risplendeva riflettendosi nelle sue lucide corna.
Nudo sulla sabbia rovente, Teseo trovò il modo di ricordare le pitture cretesi, che riproducevano le scene dei cimenti col toro. L’audace acrobata afferrava le corna del toro che lo caricava, e si sollevava con mossa aggraziata al di sopra dell’animale, servendosi di quel terribile sostegno. Desiderò per un istante di essere stato allenato a quell’arte pericolosa, ma così non era stato.
Il toro si fermò, rimase immobile per un istante, come se fosse rimasto stupito dalla visione degli spalti e delle migliaia di spettatori. Sollevò una nube di sabbia, grattando furiosamente il terreno con la zampa, e abbassò il capo, strofinando le corna sul terreno.
Poi i suoi occhi scoprirono la figura solitaria di Teseo, e l’animale caricò. Teseo lo attese, immobile. I suoi sensi, d’un tratto, riacquistarono una strana lucidità. Sentì il contatto dei granelli di sabbia sotto i suoi piedi, e il calore del sole, e le zampe vischiose di una mosca che gli camminava sul ventre.
Il tempo parve stranamente rallentato. Avvertì lo sguardo di ogni occhio, nella folla, e trovò perfino il tempo di lanciare un’occhiata ad Arianna. Lei si era piegata in avanti, nel suo palco dalle tende bianche, e lo fissava intensamente, con i suoi freddi occhi verdi. Pensò che lei aveva scommesso che il toro lo avrebbe ucciso, e le lanciò una sfida:
«Madre di Tutti, ricorda questo tuo figlio!»
Non c’era tempo per vedere la sua reazione, perché il toro era già su di lui. Trattenne il fiato, divaricò le gambe sulla sabbia rovente, e tese ogni muscolo del suo corpo…
O meglio, del corpo poderoso di Gothung. Imprecò mentalmente, sentendo che quel corpo era stanco e provato dalla prigionia, perché ciò che doveva fare richiedeva una prontezza fenomenale, e una forza integra, totale.
Teseo non era allenato per la difficile arte del salto del toro. Ma aveva viaggiato per la Tessaglìa. Aveva visto i selvaggi pastori di quella terra afferrare per le corna un toro che caricava, e rovesciarlo con un’abile mossa. Aveva tentato anche lui la stessa cosa.