Teseo condivideva lo stesso angoscioso sospetto. Coprendosi gli occhi, per difendersi dall’accecante riverbero del sole, guardò di nuovo il viso di Minosse, i suoi ilari occhi azzurri, e vide che il sovrano gli strizzava di nuovo l’occhio. Si domandò quale insidia si celasse in quell’allegria. Vide Arianna, pallida e impaziente, che pensava ai tre talenti scommessi sulla sua morte. E scorse di nuovo la figura curva e cadaverica, nel palco, alle spalle di Minosse, e rabbrividì di nuovo, avvertendo la fredda presenza di forze soprannaturali, che significavano per lui soltanto sventura.
I corni suonarono di nuovo. E Teseo aspettò. Disperatamente, sognò un bicchiere d’acqua. Chiuse gli occhi, e ricordò il fresco lago dell’Attica, là dove aveva imparato a nuotare, tanto tempo prima. Le mosche ronzavano intorno a lui, si posavano sulle ferite che segnavano il suo corpo. E, finalmente, il secondo uomo entrò nell’arena.
Era un piccolo marinaio cretese, bruno e robusto, che impugnava il tridente e stringeva la rete. Avanzò cautamente sulla sabbia, facendo roteare intorno al suo braccio la rete. Teseo desiderò violentemente l’elsa della sua Stella Cadente, e mosse le dita, così vuote e indifese.
Il cretese gli girò intorno, cautamente, e poi corse avanti senza preavviso, scagliando la rete. Ma Teseo, che lo aveva osservato socchiudendo gli occhi, aveva visto i segni premonitori dell’improvviso scatto. Tese i muscoli, allungò la mano, e colse al volo la rete.
Una volta, sulla galera pirata di capitan Fuoco, un marinaio prigioniero aveva salvato la propria vita, rivelando in cambio tutti i trucchi di quel genere di lotta. Teseo si inginocchiò sulla sabbia. Ma fece girare la rete, per impedire alle sue corde di avvolgersi intorno al suo corpo, e la rilanciò contro il cretese.
Il marinaio era balzato dietro la rete, impugnando il tridente con entrambe le mani. La rete lo prese di sorpresa, lo imprigionò. Teseo prese al volo il tridente, sfuggito dalle mani dello sbalordito marinaio, e lo impugnò con forza. Una punta di bronzo penetrò nella carne del cretese, non profondamente.
«Ti arrendi?» domandò Teseo.
Bianco per il dolore, l’uomo cercò di sollevarsi. Teseo lo fermò, puntandogli contro la gola le punte del tridente. Debolmente, allora, il marinaio ansimò:
«Mi arrendo.»
E si accasciò sulla sabbia, morto. Teseo lasciò cadere il tridente, e indietreggiò. Lo sbalordimento lo fece tremare. Sapeva che quella ferita non era letale.
I corni suonarono. L’araldo annunciò che il normanno aveva salito il quinto gradino verso il trono di Minosse. Il cadavere del marinaio fu trascinato via. Teseo aspettò, esausto. E alla fine il terzo uomo entrò nell’arena.
Questo campione dell’Oscuro era un etrusco alto, dal volto duro… un membro della razza di guerrieri nomadi che Minosse aveva assoldato sulle coste di settentrione, per guardare il suo trono. Indossava un’armatura splendente. Portava uno scudo alto quasi quanto lui, e una lunga spada bronzea.
Teseo indietreggiò, vedendo il riverbero del sole sulla lama della spada. Combatté il desiderio di gettarsi sulla sua punta, per trovare una via di scampo rapida e pulita dalla morsa della fatica e della sofferenza. Il desiderio fu vinto, e la sua mente ottenebrata cercò di fare un altro piano.
C’era una grande chiazza scura sulla sabbia, dove i tori dovevano avere ucciso un’altra vittima. Avrebbe potuto essergli utile. Perché lui doveva andare avanti. Non per il trono di Minosse, non per il tesoro di Cnosso, e neppure per l’insolente bellezza di Arianna. Ma, gli pareva, per un bambino nudo, che piangeva in un canale di scolo.
Lo scudo dell’etrusco era pesante. Malgrado la stanchezza, Teseo riuscì a muoversi abbastanza velocemente da evitare la spada del nemico, per qualche tempo, finché non fu intrappolato in un angolo. Si ritrasse, si voltò, fece una pausa, e fuggì di nuovo.
L’etrusco lo inseguì, ansimando, sudando, bestemmiando i suoi dei. Il sole era accecante, i suoi riflessi facevano brillare l’elmo e la spada. Teseo passò vicino alla nera chiazza di sangue, le passò di nuovo vicino, e poi ancora, una terza volta. Ma il mercenario la evitò sempre. Furono le poche gocce di sangue versate dal marinaio, durante l’ultima prova, che alla fine lo fecero scivolare. Teseo si fermò, si chinò, e si voltò di scatto. Le sue dita tremanti afferrarono una gamba coperta di bronzo, diedero uno strattone.
L’etrusco cadde sulla schiena, sotto il suo lungo scudo.
Il tallone nudo di Teseo gli calpestò il braccio, e la spada di bronzo sfuggì di mano al nemico.
Teseo afferrò la spada, la sollevò in alto.
Ma non colpì.
Perché Minosse, nel palco dalle tende nere, si era alzato in piedi, bruscamente.
Il suo viso roseo rideva sempre, con la sua espressione bonaria. Gli occhi azzurri scintillavano per l’allegria.
Ma egli sollevò il braccio grassoccio, in un gesto di noia.
Una fiamma azzurrina uscì dalle sue dita nude.
Si udì lo schianto di un vero tuono.
Emanando un fetore insostenibile, di carne e di cuoio bruciati, l’etrusco cessò di dibattersi, e giacque immobile.
CAPITOLO XI
Teseo si rialzò, mentre il mondo girava vorticosamente intorno a lui, e guardò gli occhi ilari del sovrano. La sabbia abbagliante ondeggiò di nuovo, e il volto allegro di Minosse rimase sospeso sullo sfondo bianco, come una maschera di allegria, circondata da nere ondate di fatica e di dolore. Gli parve che Minosse gli avesse strizzato l’occhio, ancora una volta, e poi il sovrano tornò a sedersi.
Malgrado i morsi del sole, Teseo aveva freddo. Quello che era accaduto bastava a dimostrare, al di là di ogni dubbio, che Minosse, era davvero un dio, che era in grado di comandare veramente ai fulmini.
Come avrebbe potuto un vincitore dei giochi, dunque, far valere i suoi diritti? Che cosa significava quel gesto d’intesa?
Teseo aveva sperato, confusamente, che i sacerdoti e il popolo avessero potuto esercitare delle pressioni, costringendo in qualche modo il sovrano a comportarsi equamente con il vincitore. Ma il mormorio di rispetto e di paura che corse per l’arena bastava a dimostrargli l’assoluto potere di Minosse. Così, Teseo non doveva aspettarsi alcun aiuto.
Pochi contendenti, sospettava Teseo, erano riusciti a salire così vicino al trono di Minosse. Perché nell’arena era calata un’atmosfera ansiosa ed eccitata, e il popolo assisteva a quello che stava accadendo, trattenendo il respiro, con interesse morboso. Anche la voce dell’araldo era più rauca, pareva scossa e insicura:
«Gothung il Normanno è stato favorito, nella sua scalata al trono di Minosse, dall’Oscuro nei suoi aspetti di toro e di uomo. Perciò che il Normanno ora provi la volontà dell’Oscuro, nel suo sublime aspetto di dio.»
I corni suonarono di nuovo.
«Gothung aspetterà in piedi al centro dell’arena. Prima di tutto, che si stabilisca la volontà dell’Oscuro grazie a Cibele, figlia dell’Oscuro e madre degli uomini, che alberga nella bella Arianna.»
Barcollando, sbalordito, Teseo avanzò verso il centro dell’arena. Trovò le due sacre asce di Minosse, tracciate sulla sabbia con della terra nera versata sulla sabbia bianca, e si fermò sopra di esse. Semiaccecato dal riverbero del sole sulla sabbia, rimase immobile, guardando Arianna, e si chiese quale sarebbe stata la prossima prova.
I corni d’argento squillarono di nuovo.
Arianna si alzò languidamente, all’interno del suo palco dalle tende bianche. I capelli color fiamma le scesero sulle spalle, in una splendida cascata, e la dea avanzò con andatura morbida e insolente su una grande piattaforma che sorgeva davanti ai palchi. Il sole giocava coi suoi capelli, e tramutava il suo corpo in una enigmatica statua di marmo, e traeva bagliori dalla sua audace veste verde.