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Aveva aspettato, per ore, o per giorni, interminabili, che le guardie venissero a portargli il cibo. Ma non arrivò alcun cibo. La giustizia dell’Oscuro, apparentemente, cominciava con il digiuno solitario.

Teseo era certo che qualcuno ci fosse, però, per assicurarsi di quando in quando che il prigioniero fosse ancora vivo. E, quando fu sparita ogni speranza di fuggire grazie alla forza delle proprie mani, cominciò a chiamare, a intervalli regolari, rivolgendosi all’oscurità che gravava sopra di lui:

«Dieci talenti d’argento per portare un messaggio all’ammiraglio Phaistro!»

Dieci talenti d’argento erano quattro volte il peso di un uomo, in metallo, e l’argento era il metallo più prezioso. Un talento significava una grande ricchezza. Dieci erano una cifra sufficiente ad eccitare la cupidigia di ogni uomo. Ma la voce di Teseo rimbalzò cupamente sulle pareti spoglie della segreta, e morì nel silenzio, assorbita dalle tenebre e dal nulla, e non giunse alcuna risposta.

Pronunciò queste parole per molte volte, finché non ebbe più voce. Dormì, si svegliò, gracchiò il suo rauco appello, dormì e si svegliò di nuovo, e lo mormorò, con il rantolo che gli era rimasto. Il tempo era breve, ormai; dopo, non avrebbe più avuto né le forze né la ragione, per riuscire a realizzare il suo piano.

«Uomo nudo, quale argento possiedi?»

Dapprima non riuscì a credere di avere udito quel mormorio cauto e spaventato. Rimase immobile, tremando, sulla fredda pietra. E il mormorio si fece udire di nuovo, debolmente:

«Condannato, dov’è il tuo argento?»

Era reale! Teseo cercò di calmare i suoi muscoli, che gli dolevano e facevano tremare il suo corpo esausto, cercò di ritrovare la voce, e la forza, e l’astuzia. Terrorizzato dall’idea di un errore, che avrebbe annullato anche questa sua ultima, debolissima speranza, mormorò nel buio:

«Io possiedo duecento talenti d’argento… e anche trecento talenti d’oro, e due volte questo peso in bronzo e in stagno, e quaranta giare piene di gioielli… che il capitan Fuoco ha preso da cento tra le più ricche navi di Creta e d’Egitto e delle città del nord. E questo tesoro è sepolto in un’isola, e protetto dall’incantesimo di un mago, e solo il mago ed io possiamo ritrovarlo.»

Ci fu silenzio, nel buio. Teseo tremò, per il timore di aver fallito, per il timore che la guardia se ne fosse andata. Ma, finalmente, il mormorio si fece udire di nuovo:

«Tutto l’argento del mondo, pirata… e tutto l’oro, e il bronzo e lo stagno… non potrebbero comprare un giorno di libertà, per te. Perché la guardia che ti liberasse sarebbe condannata automaticamente alla giustizia dell’Oscuro. E tutti i tesori del mondo non potrebbero salvare un uomo dagli stregoni e dagli dei.»

«Ma io non cerco la fuga,» mormorò Teseo. «Io voglio semplicemente pagare un sevizio. Se dovrò andare nel Labirinto, non avrò bisogno di quel tesoro che aspetta sull’isola. Io sono disposto a rivelare il suo nascondiglio, in cambio di un servizio.»

«E qual è,» giunse il mormorio dall’alto, «qual è questo servizio?»

«È un servizio che solo l’ammiraglio Phaistro può rendermi.» Teseo mise nella sua voce una nota di amarezza. «Io sono stato tradito da uno dei miei ufficiali… un uomo che era stato il mio migliore amico. Ha preso il comando della mia nave, e mi ha mandato alla deriva, su una carcassa condannata ad affondare, senza remi e senza speranza, affinché io perissi schiantandomi sugli scogli di Creta. Voglio dare il mio tesoro in cambio della vendetta contro il pirata dorico, chiamato Cirone, la Volpemaestra. E solo l’ammiraglio può darmi quello che io desidero.»

Silenzio. Una goccia d’acqua cadde sulla pietra. Ancora silenzio. Un sospiro dall’alto, e un’imprecazione soffocata, come se la guardia fosse combattuta tra la cupidigia e la paura. E, alla fine, giunse di nuovo il mormorio, in tono dubbioso: «Come otterrò il mio argento?»

«Puoi fidarti di Phaistro,» lo incoraggiò Teseo. «Se lui viene qui, il segreto varrà bene dieci talenti!»

«Oppure la mia vita!» brontolò l’altro. Ci fu ancora una pausa di silenzio, e il rumore di un’altra goccia che cadeva dalla roccia. «L’ammiraglio ha certamente bisogno del tuo tesoro,» rispose la guardia, cedendo. «Gli dirò di venire… se oserà correre questo rischio tremendo!»

Teseo tremò di speranza, poi fu di nuovo in preda alla più nera paura.

«Aspetta!» disse. «Di’ un’altra cosa a Phaistro. È inutile che lui venga, a meno che non possa trovare e portare con sé un certo ciabattino babilonese, che è recentemente arrivato a Ekoros. Il ciabattino è un ometto piccolo, dal viso di rospo, dalla pelle gialla e bruna. Il suo nome è Snish.»

«Ma che bisogno c’è di un ciabattino?» mormorò raucamente la guardia.

«Il ciabattino è anche un mago,» mormorò Teseo. «Ed è mio amico. Mi ha aiutato a seppellire il tesoro, e lo ha protetto con le sue arti. Nessuno di noi due può trovarlo, né dare istruzioni per trovarlo, da solo. Perché ciascuno possiede solo la metà del segreto, e la metà che ciascuno possiede è inutile senza quella nota all’altro. Questo è l’incantesimo.»

«Lo dirò all’ammiraglio,» promise la guardia. «Ma, pirata, se questa fosse solo una menzogna…» La minaccia gli morì in gola, ed egli brontolò: «Ma a che servono le minacce? Cos’altro può essere fatto a un uomo che è già in attesa della giustizia dell’Oscuro?»

Ritornò il silenzio.

Le gocce d’acqua continuarono a scendere, e il loro rumore era chiaro e forte, come il crollo di tante torri di cristallo. Le gocce cadevano a lunghi intervalli, e il silenzio cresceva e si addensava tra un tonfo e l’altro e Teseo aspettò, una goccia dopo l’altra, un’eternità dopo l’altra, aspettò che qualcosa accadesse, mentre l’incertezza e l’ansia gli dilaniavano la mente.

Un’ombra fredda di terrore e di angoscia crebbe dentro di lui. Perché non esisteva, in realtà, alcun tesoro sepolto. Tutto il bottino della galera pirata, nel tempo in cui lui era stato a bordo, non ammontava neppure alla metà di ciò che aveva descritto. Ma solo un decimo di esso era toccato a capitali Fuoco, e lui l’aveva donato lietamente, senza curarsi di ciò che poteva rimanergli, a coloro che ne avevano bisogno, a coloro che soffrivano per le guerre e per i pesanti balzelli imposti da Minosse.

«Tutti i cretesi sono mentitori e spergiuri,» questo era un proverbio noto da Tebe a Troia. Una razza di bugiardi poteva avere appreso l’arte di scoprire subito le altrui menzogne, ma poteva essere anche pronta a crederle. Ma questa invenzione era adesso la sua unica speranza di vita, e doveva sperare, sperare con forza.

A un certo punto, riuscì ad addormentarsi. Sognò di essere salito vittoriosamente sul trono di Minosse, e sognò che la bella Arianna era diventata sua sposa. Ma lei era fuggita da lui, nel Labirinto dell’Oscuro. Lui l’aveva seguita, e l’aveva trovata in mezzo agli orrori di quell’oscuro spazio cavernoso, e l’aveva baciata. Ma, tra le sue braccia, la bella dea si era trasformata nella figura sgraziata di Snish.

Il rumore delle gocce che cadevano lo destò, e gli parve di essere vicino a una terribile valanga di montagne di cristallo. Rimase immobile, sul pavimento umido, e aspettò con intensità dolente che qualcosa accadesse. Le gocce continuarono a cadere, e ognuna segnava l’inizio e la fine di un secolo di ansia e di tensione.

Teseo pensò di stare di nuovo sognando, quando udì un rumore di passi, in alto. Ma si udirono dei mormoni sommessi, e il sordo rumore di una spada che toccava un oggetto… una parete?… di pietra. E udì la voce secca e familiare dell’ammiraglio Phaistro, una voce tremante di paura, e sommessa.

«Capitan Fuoco?»

«Sì!» Teseo cercò di ritrovare il respiro. «Ammiraglio…»