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Stringendo la spada, cominciò a discendere i gradini scivolosi, sui quali era cresciuto il muschio.

«Ebbene, Stella Cadente,» mormorò, «se il nostro destino è di marcire e arrugginire qui, almeno prima cerchiamo l’Oscuro… per scoprire se la tua lama lucente può penetrare la sostanza della quale sono fatti gli dei di Creta!»

Con le mani, tastò le pareti, che erano coperte di muschio. La discesa era ripida, e i gradini erano molto stretti. Scese lentamente, contando i gradini, e saggiando prima il terreno, per evitare di mettere un piede in fallo.

Dopo sessanta gradini, c’era un piccolo pianerottolo di pietra, quadrato, e una svolta nel passaggio; dopo altri sessanta gradini, un altro. Sul terzo pianerottolo i suoi piedi calpestarono qualcosa di friabile, e allungando le mani, capì che si trattava di due scheletri decrepiti.

Pensò che lo scheletro dalle ossa più sottili doveva essere stato quello di una donna. Le ossa erano mescolate, come se i loro proprietari fossero periti in un ultimo lungo abbraccio. Strano, ma il cranio dell’uomo, e alcune delle ossa più grandi, mancavano.

Teseo lasciò quei miseri resti, e scese, domandandosi cosa avrebbe trovato sul quarto pianerottolo. Contò di nuovo cinquantotto gradini. Ma, dove c’era stato il cinquantanovesimo, ora c’era… il nulla.

Muovendosi con troppa sicurezza, per poco non perse l’equilibrio. Si riprese, e indietreggiò di uno scalino. Sentì una debole corrente di aria fetida, che saliva da quella breccia invisibile. Debolmente, udì un mormorio di acqua corrente, molto, molto in basso.

Tentò di gridare, di esplorare lo spazio davanti a lui servendosi dell’eco della propria voce. Il suo primo sforzo produsse solo un debole suono gracchiante. Risolutamente, abbandonò la mostruosa paura che la presenza invisibile dell’Oscuro gli incuteva, e gridò, raucamente:

«Salve, Oscuro!»

Per un lungo periodo non si udì alcuna eco, come se la voce di Teseo fosse stata assorbita da chissà quale cortina. Finalmente, però, l’eco del suo grido ritornò, amplificato e distorto, da una distanza infinita. Capì che davanti a lui c’era una caverna, vasta e profonda.

Tenendo cautamente la mano, esplorò le pareti, fin dove poté arrivare. La pietra levigata si stendeva in ogni direzione. Non riuscì a trovare alcun appiglio per salire o spostarsi, lateralmente, e anche la punta della sua spada non riuscì a scoprire alcun punto d’appoggio, davanti e sotto di lui.

Allora capì perché i due sconosciuti, l’uomo e la donna, avevano preferito morire sul pianerottolo. Sospettò anche il motivo per cui una parte delle loro ossa era sparita… e capì che lui non era stato il primo a seguirli.

Le loro ossa, pensò, avrebbero potuto essere utili anche a lui.

Ritornando sul pianerottolo, raccolse il cranio della donna, e una manciata di altre ossa. Contò di nuovo i gradini coperti di muschio, e ritornò sul penultimo prima del nulla, e lasciò cadere dall’orlo una delle ossa dell’uomo.

Non colpì nessuna sporgenza sulla quale lui avrebbe osato saltare. Per molto tempo, dall’abisso non giunse alcun suono. Poi ci fu un rumore lontano e debole, di un oggetto che colpiva l’acqua, che rimbalzò contro le pareti invisibili.

Pazientemente, lasciò cadere delle altre ossa, da altri punti del gradino, e poi cominciò a lanciarle in direzioni diverse. Caddero tutte molto in basso, come la prima, e si udirono i deboli rumori provenienti dal fondo. Alla fine, lanciò il cranio della donna.

Il cranio urtò qualcosa, davanti a lui, praticamente allo stesso livello del gradino sul quale si trovava. Rotolò, con un rumore cupo, e poi il rumore cessò, e, alla fine, si udì un altro debole tonfo, in basso.

Diverse altre ossa colpirono quella superficie diseguale, e alcune vi rimasero. Neppure tendendo la punta della spada il più lontano possibile Teseo riuscì a toccare qualcosa. Ma, alla fine, quando le sue orecchie e le ossa non poterono dirgli più di quanto già gli avevano detto, lui tese i muscoli, agitò le braccia e saltò a pie’ pari.

Per un istante, pensò che avrebbe mancato il bersaglio, sia pure di poco, e fu improvvisamente consapevole del nero abisso profondo che si spalancava sotto di lui. Poi urtò una lingua di roccia diseguale, e scivolò, e riuscì a fermarsi in tempo.

Strisciando sulle mani e sulle ginocchia ferite, Teseo esplorò la lingua di roccia sulla quale era caduto. Era sottile, e si sporgeva verso il fondo di quella scala mozza e tenebrosa.

La strada, nella dimora dell’Oscuro, era evidentemente cosparsa di pericoli. Quasi tutti coloro che erano stati gettati nel Labirinto dovevano essere morti nell’abisso che aveva appena superato.

La giustizia dell’Oscuro era dunque soltanto… la morte?

Immobile su quella stretta lingua di pietra, in attesa di riprendere fiato, Teseo cercò di ricordare tutto quello che sapeva dell’Oscuro. La divinità era a volte rappresentata, ricordava, come una gigantesca cosa mostruosa, metà toro e metà uomo. Per un momento rabbrividì di terrore, pensando a un’entità così mostruosa. Ma strinse con forza la Stella Cadente, che lo aveva accompagnato nel balzo.

«Noi abbiamo ucciso dei tori,» mormorò alla sua spada, «e degli uomini! Perché, allora, non possiamo uccidere anche l’Oscuro?»

Si alzò in piedi, e cominciò a percorrere la lingua di roccia, battendo il terreno davanti a sé con la punta della spada, come un cieco col suo bastone. Lame di roccia gli ferirono i piedi, e il suo corpo nudo tremò, per la tremenda umidità e il gelo che regnava in quel regno della desolazione.

La lingua di roccia lo portò davanti a una parete nuda e diseguale. Non c’erano altre strade da seguire, né a destra né a sinistra, e pensò che quella lingua di roccia forse lo aveva condotto soltanto alla morte.

Ma lui era vivo, e la speranza non voleva morire dentro di lui. Dopo qualche tempo, le sue dita incontrarono una fessura nella roccia, e cominciò a salire, tenendo la Stella Cadente tra i denti. L’ascesa era difficile. La fatica disumana. Capì di essere vicino ai limiti delle sue forze, quando arrivò a una specie di tettoia, che sporgeva al di sopra del suo capo.

Non c’era alcun passaggio verso l’alto.

Capì che non avrebbe avuto la forza di ridiscendere fino alla lingua di roccia… non che ci fossero molti motivi, per ritornare. Tra un po’, pensò, le sue dita indolenzite e sanguinanti avrebbero lasciato la presa, e lui sarebbe scivolato lungo quella fessura nella parete di roccia. Ci sarebbe stato un altro tonfo, in basso, nel buio.

Si tenne aggrappato alla roccia, però, e un soffio di aria stantia, che il sole non aveva mai scaldato, gli sfiorò il viso, come l’ala di un fantasma. Si spostò lateralmente, e la corrente divenne più forte. Le sue mani raggiunsero l’orlo di uno stretto passaggio, e, faticosamente, lui si issò fin là, ed entrò in un luogo dove c’era spazio a sufficienza per riposare.

Giacque laggiù per molto tempo, respirando stancamente, massaggiandosi i muscoli indolenziti. Alla fine tentò di alzarsi, e batté il capo, duramente, contro la punta di un’aguzza stalattite, e allora strisciò, faticosamente, sulle mani e sulle ginocchia, per esplorare la nuova caverna nella quale si trovava.

Seguì una galleria tortuosa, scavata dalle infiltrazioni d’acqua, nel corso dei secoli, e dopo qualche tempo la volta si alzò, finché lui non fu in grado di camminare eretto, battendo il terreno davanti a sé con la punta della spada. C’erano delle sottili fessure che doveva evitare, o improvvisi ostacoli da scalare, o crepacci che doveva saltare, freddi specchi d’acqua stagnante che fu costretto ad attraversare a nuoto.

L’acqua e la pietra, insieme, avevano dato vita a strane formazioni. Una, che le sue mani sanguinanti esplorarono lentamente, aveva una forma che ricordava stranamente un’immensa testa di toro. Un macigno sporgente formava la testa vera e propria, e due stalagmiti curve erano le corna. La massa rocciosa, in basso, suggeriva l’idea di un gigantesco corpo umano.