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«Luce!» singhiozzò Cirone. «Una luce!»

«Il libro dei morti,» disse Teseo, «ma può guidare i vivi. Grazie agli egiziani, e ai papiri che possono essere portati dovunque.»

Proseguirono. Teseo spense la minuscola torcia, quando ebbe mostrato loro una possibile strada da seguire. Per una dozzina di volte la riaccese, e la spense… e guardò sempre il fumo. Finalmente, esso fluttuò lievemente, indicando la presenza di una corrente d’aria. Seguirono la direzione opposta. E quando la fievole fiamma si spense, non si trovarono più nell’oscurità completa di prima. C’era una vaga luce grigiastra.

La luce del giorno!

Tremanti e ansanti, si arrampicarono verso la luce. Ma un grande macigno, nel corso dei secoli, per qualche accidente della natura, era caduto e bloccava il passaggio. La sottile fessura aperta non lasciava passare i loro corpi.

Deboli per la stanchezza e la fame, in preda alla disperazione più nera, giacquero sotto quella luce preziosa. Lentamente essa diminuì, e poi ci fu solo il buio. Teseo, scivolando pigramente nel nulla, pensò che quella era stata forse l’ultima luce.

Ma si svegliò, dopo qualche tempo, pieno di forze e di speranze rinnovate. Una pallida luce spettrale filtrava di nuovo dalla fessura, ed essa guidò la punta della Stella Cadente. La pietra, indebolita dal tempo, cadde sopra di loro, mentre la lama scavava nella fessura. Finalmente, Teseo scosse il corpo immobile di Cirone.

«Vieni,» mormorò, «la strada è aperta.»

Le sue parole risvegliarono il dorico, quasi per magia.

Si infilarono nel passaggio che Teseo aveva scavato, e finalmente uscirono, all’interno di un piccolo edificio a forma di alveare.

La luce della luna entrava dalla porta. Batteva sugli scalini dell’altare, sugli sterpi, e rischiarava l’altare, dove si trovavano delle offerte, datteri, dolci, un pezzo di pesce affumicato, una ciotola di olive, e una giara di vino.

«Dove…» ansimò Cirone, «che cosa…» Cadde davanti all’altare, la sua mano afferrò il pesce.

«Questo è il tempio di Cibele,» gli disse Teseo. «I cretesi credono che la loro dea sia nata dalla terra e dall’Oscuro, attraverso la fessura dalla quale noi siamo usciti, per essere madre…» La sua bocca era piena di datteri, e non aggiunse altro.

La luna piena splendeva alta nel cielo, quando alla fine essi uscirono, barcollando come ubriachi dal tempio di Cibele. Gli ulivi del bosco sacro erano ombre nere, sotto i raggi d’argento dell’astro. La valle di Kairatos era silenziosa e oscura, sotto di loro, e la città di Ekoros giaceva quieta, sotto la sinistra collina del minaccioso palazzo di Cnosso.

«Siamo usciti vivi dal Labirinto.» La voce di Teseo era bassa, ma piena di esultanza selvaggia, e la sua mano stringeva con forza l’elsa della Stella Cadente. «E abbiamo portato con noi il segreto che ci farà conquistare Creta!»

Barcollando, per l’effetto del vino bevuto con liberalità, Cirone sputò i noccioli di dattero che aveva in bocca, e grugnì, in tono cinico:

«Ma non abbiamo portato con noi alcuna prova,» fu la sua risposta. «E la bestemmia è il crimine più nero. Ci manderanno immediatamente dall’Oscuro… e vorranno essere sicuri che ci restiamo!»

CAPITOLO XIX

Teseo ritornò all’interno del tempio. Andò dietro l’altare, penetrò nella fenditura a lui ben nota, frugò in una cavità, e trovò l’oggetto che vi aveva lasciato… il piccolo cilindro istoriato del muro della magia, appeso alla sua catena d’argento. Si mise la catena intorno al collo, dove aveva tenuto il prezioso papiro.

Cirone, nel frattempo, aveva avvolto quello che rimaneva del cibo nella tovaglia che copriva l’altare. Lasciarono il tempio, e l’alba li trovò in una vigna abbandonata, invasa dagli arbusti, sulla cima di una piccola collina rocciosa.

Aprirono la tovaglia, posarono a terra il loro bottino, e strapparono la stoffa, per farsi dei perizomi. La fresca aria aperta era incredibilmente dolce e deliziosa, dopo il fetore delle caverne, e il sole nascente riscaldò ben presto i loro corpi intirizziti.

Giacquero al sole per tutta la mattinata, l’uno mangiando e restando di guardia, l’altro dormendo, a turno. Nel pomeriggio, riposarono sotto l’ombra di un grande melo abbandonato, e Teseo parlò dei suoi piani, rispondendo a tutte le obiezioni di Cirone.

«I cretesi non ci crederanno,» si ostinava a dire Volpemaestra, «Perché chiunque lo faccia, sarà condannato automaticamente a scendere nel Labirinto.»

«Può darsi,» disse Teseo. «Ma ci sono degli uomini che ci crederanno… i nostri pirati! Essi sono schiavi, ora… quelli che sono rimasti in vita… nei recinti di Amur l’Ittita… così mi è stato detto, quando io ero ammiraglio. Loro ci crederanno, puoi esserne certo.»

Cirone scosse il capo.

«Può darsi,» brontolò, «ma anche se ci credono? Sono un semplice manipolo di uomini smunti, stanchi, torturati e carichi di catene, già percossi e vinti dalla potenza di Creta.»

«Perciò hanno motivi sufficienti per ribellarsi,» disse Teseo. «Come tutti i cretesi! E la verità che noi portiamo taglierà le loro catene e sarà la loro spada. Non esiste l’Oscuro… queste stesse parole vinceranno Minosse!»

«Sono parole che suonano bene,» ammise Cirone, «ma cosa sono le parole, contro le galere e i marinai di Phaistro, e contro i mercenari etruschi, e la potenza di bronzo di Talos, e tutti i poteri degli dei di Creta?»

Teseo accarezzò l’elsa della Stella Cadente.

«L’Oscuro era il più grande dio di Cnosso,» disse, «E noi l’abbiamo sconfitto.» Un sorriso gli sEorò le labbra. «Il ricettacolo di Cibele ha ceduto.» Il suo viso tornò di nuovo duro. «Restano solo Minosse, e il mago Dedalo, e l’Uomo di Bronzo… e, come l’Oscuro, anch’essi moriranno!»

Lasciarono la vigna al tramonto, e percorsero la strada per Ekoros. Teseo si avvicinò a un lavoratore bagnato di sudore, che tornava a casa dalla sua bottega, e gli domandò dove poteva trovare i recinti degli schiavi di Amur l’Ittita.

«Questa è una strana domanda!» Il lavoratore li guardò, con curiosità. «Molti uomini sono più ansiosi di lasciare i recinti, piuttosto che di trovarli. Ma, se i balzelli e le tasse vi costringono a vendervi ad Amur, prendete la strada a sinistra, dopo il bosco degli olivi, e passate la seconda collina… e state attenti, che le sue guardie non vi rapiscano per incassare la ricompensa e spenderla nelle peggiori taverne!»

Il crepuscolo s’incupì, e fu la notte, e la luna piena spuntò dietro le colline purpuree, a oriente; e allora Teseo e Cirone giunsero nelle vicinanze del recinto degli schiavi. Un’alta palizzata lo circondava, e agli ingressi c’erano delle guardie, appoggiate indolentemente alle aste delle loro poderose lance.

Teseo e Cirone si gettarono a terra, e strisciarono silenziosamente nella sterpaglia, verso la barriera. Attraverso i pali, videro che gli schiavi incatenati tornavano dalla lunga giornata di lavoro, sorvegliati da cupi guardiani.

Tutti i campi che si stendevano intorno, i giardini, i vigneti, appartenevano ad Amur, così aveva detto loro il lavoratore che avevano incontrato. Sue erano le fucine, le botteghe, i cantieri. E tutti i suoi schiavi venivano tenuti nel recinto, come bestie, durante la notte.

Il vento cambiò, e portò un odore rancido, nauseante.

In uno spazio aperto, tra le sudice baracche di legno e di pietra, e i trogoli nei quali gli schiavi potevano bere, in fila come animali, era acceso un fuoco. Sui tizzoni si trovava un enorme paiolo, più alto di un uomo, annerito dal fumo. Il paiolo vibrava, a intervalli, per un grido attutito di dolore.

Le mani di Volpemaestra si strinsero a pugno.

«C’è un uomo nel paiolo!» mormorò. «Ma che cosa possiamo fare?» Tremò. «Due uomini, con una spada… contro quella parete, e due dozzine di soldati di guardia! Arrostiremo anche noi, nel paiolo di Amur!»