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Qualche minuto più tardi la porta si aprì con un fiotto di luce, e nella stanza entrò un uomo che era alto all’incirca un metro e mezzo e che portava una lanterna.

— Il Popolo Fatato ci ha avvertiti che eri sveglio — disse. — Te la senti di mangiare?

— Credo di sì.

L’uomo posò la lanterna su un piccolo tavolo vicino alla porta, poi uscì chiudendosi il battente alle spalle, e Sarcyn sentì il rumore di una pesante sbarra che veniva abbassata all’esterno: dunque era un prigioniero, anche se veniva trattato con riguardo. Pur misurando appena tre metri di lato ed essendo intagliata nella roccia della montagna, la stanza non era infatti di certo una cella. Il pavimento era coperto da un folto tappeto rosso, e oltre al pagliericcio e al tavolo l’arredo comprendeva anche una sedia squadrata con lo schienale alto e il sedile coperto da un cuscino che appariva assai comoda… per qualcuno con le gambe molto corte; accanto alla porta, discretamente coperto da un panno, c’era un pitale, e vicino ad esso erano posati i suoi vestiti, lavati, asciugati e accuratamente piegati.

Muovendosi lentamente perché la testa gli girava ancora, Sarcyn si alzò e si vestì, senza restare sorpreso nel constatare la mancanza della sua spada. Aveva quasi finito quando il nano tornò con un vassoio di legno su cui erano posate due ciotole.

— Ti piacciono i funghi?

— Sì.

— Bene — commentò il nano, posando il vassoio sul tavolo. — Tutti i mobili sono un po’ piccoli per te, vero? Del resto, non rimarrai qui a lungo.

— Puoi dirmi dove andrò?

Il nano fece una pausa, riflettendo con il capo inclinato da un lato, poi scrollò le spalle e si accostò alla porta, aprendola di una frazione in modo che Sarcyn potesse vedere i due uomini armati di guardia davanti ad essa.

— Il Maestro dell’Aethyr sta venendo a prenderti — disse quindi.

Pronunciate quelle parole oltrepassò la soglia e chiuse di scatto il pesante battente nel momento stesso in cui Sarcyn si scagliava in avanti più per un cieco terrore che in un razionale tentativo di fuggire, andando a sbattere contro di esso. Per un momento, rimase appoggiato alla porta con le braccia allargate, ascoltando il suono della sbarra che veniva calata al suo posto, poi scoppiò in silenziosi singhiozzi. Ritrovato infine il controllo, si staccò dalla porta e prese a passeggiare con irrequietezza per la stanza. In alto, vicino al soffitto, era visibile un’apertura che doveva servire per la ventilazione, ma misurava appena trenta centimetri quadrati ed era troppo piccola perché lui vi si potesse insinuare. Forse avrebbe potuto fingere di stare male per poi sopraffare il suo guardiano… ma sarebbero rimaste comunque le guardie; oppure avrebbe potuto ritrarre la sua aura e sgusciare fuori… ma a patto che i nani aprissero ancora la porta prima dell’arrivo di Nevyn. O ancora avrebbe potuto evocare il Popolo Fatato perché creasse un diversivo, arrivando magari a convincere una di quelle creature a sollevare la sbarra.

Poi un pensiero lo trafisse come una freccia, inducendolo ad arrestarsi di colpo: non voleva fuggire. Sedutosi lentamente per terra accanto al piccolo tavolo, rifletté su quel pensiero, ottenendo però la stessa risposta: non aveva nessun desiderio di essere libero. Era stanco, esausto nel profondo dell’anima, troppo spossato per fuggire, e se anche ci fosse riuscito avrebbe poi dovuto continuare sempre a scappare da Nevyn, dalla legge, dai Falchi, dal terrore dei suoi stessi ricordi… correre senza posa, continuando a mentire e a stare in guardia.

— In vero, un daino in una riserva di caccia ha una vita più serena — commentò ad alta voce, accompagnando le parole con un sorrisetto distorto.

Sarebbe morto. Indubbiamente Nevyn lo avrebbe consegnato al gwerbret e sarebbe stato ucciso, ma naturalmente era sempre meglio che finire nelle mani dei Falchi: nel peggiore dei casi gli avrebbero rotto le ossa sulla ruota, ma lui aveva sentito parlare di Blaen quanto bastava per sapere che molto probabilmente gli avrebbe inflitto una pietosa impiccagione. Pensandoci, avvertì anche una sorta di perverso piacere nel rendersi conto che tutte le informazioni cruciali che aveva raccolto sarebbero morte con lui… adesso il Vecchio non avrebbe mai saputo del sangue misto di Rhodry. Allorché quel pensiero lo indusse a sorridere si rese conto di aver odiato il Vecchio per anni, di averli odiati tutti, ogni maestro oscuro, ogni apprendista e ogni Falco che aveva conosciuto… li aveva odiati come loro dovevano aver odiato lui. Bene, adesso si sarebbe liberato di loro.

Sollevò le mani, aspettandosi di vederle tremare, ma esse erano assolutamente salde: voleva morire… improvvisamente comprese che la sua inevitabile morte non sarebbe stata un’esecuzione ma un suicidio assistito. Per anni si era sentito come la vuota farsa di un uomo e adesso la falsa e sottile facciata che aveva presentato al mondo si sarebbe sgretolata per essere inghiottita dal vuoto che esisteva dentro di lui, e la lunga stanchezza sarebbe svanita. Sorrise di nuovo, e nel farlo si sentì avviluppare da un caldo senso di calma, come se stesse galleggiando in una vasca di acqua tiepida e profumata o fluttuando a qualche centimetro dal pavimento, tanto si sentiva leggero, tranquillo e sicuro ora che aveva deciso di morire. Nessuno lo avrebbe più costretto ad andare contro la sua volontà, nessuno gli avrebbe più fatto del male. Continuando a sorridere, tirò verso di sé il vassoio con il cibo, perché si sentiva assolutamente calmo e molto affamato.

Quando ebbe finito di mangiare, la calma si era ormai trasformata in una stanchezza tanto profonda da rendergli difficile continuare a tenere la testa sollevata, quindi si distese prono, appoggiò il capo sulle braccia ripiegate e rimase ad osservare le ombre proiettate dalla lanterna sul pavimento, fluttuando a tratti fuori del corpo per poi rientrarvi in un continuo ondeggiare fra il piano eterico e quello fisico che non era causato da nessuno sforzo cosciente. Era fuori del corpo quando infine la porta della cella si aprì e Nevyn entrò a grandi passi, accompagnato dal nano che era già venuto a portargli il cibo. Pur non avendo mai visto il vecchio prima di allora, Sarcyn comprese subito di avere di fronte il Maestro dell’Aethyr perché la sua aura era di un accecante bagliore dorato.

— Per tutti i vermi! — scattò il nano. — È morto?

— Ne dubito — rispose Nevyn, inginocchiandosi accanto al corpo di Sarcyn e posandogli una mano sulla base del collo. — No, ma è in trance.

D’un tratto Sarcyn sentì la luce azzurra vorticare intorno a lui, poi il suo corpo prese a risucchiarlo dentro di sé nonostante i suoi tentativi di resistere, tirandolo lungo il cordone argenteo fino a quando si sentì un sibilo seguito da uno scatto. Con un grugnito aprì gli occhi e vide Nevyn chino su di lui.

— Bene — commentò il nano. — Sarò qui fuori, se avrai bisogno di me.

Sarcyn continuò a fissare il pavimento finché non sentì la porta che si richiudeva, poi girò molto lentamente il capo per guardare il suo avversario. Gli sembrava di dover dire qualcosa, magari parole di sfida o una semplice affermazione di essere pronto a morire, addirittura impaziente, ma di nuovo si sentì molto stanco e non riuscì ad aprire bocca, mentre Nevyn si limitava a fissarlo per quello che parve un tempo molto lungo.

— Ero venuto qui con la speranza di parlare di riparazione — affermò infine il vecchio, — ma ora mi pare che sia troppo tardi per questo.

Con un sospiro si rialzò e si diresse verso la porta; dietro di lui, Sarcyn si addormentò prima ancora che avesse aperto il battente.

Sebbene Nevyn avesse insistito di essere capace di prelevare e di riportare indietro da solo un pericoloso prigioniero, Jill e Rhodry non gli avevano permesso di farlo, ma adesso cominciavano a capire perché il vecchio fosse stato così irremovibile nel rifiutare la scorta degli uomini di Blaen, mentre sedevano in silenzio su una lunga panca di pietra addossata alla parete di un’enorme caverna, intenti a guardare il mercato della città dei nani. La caverna aveva un diametro di almeno cento metri ed una volta alta il doppio, da cui piovevano i raggi di sole che fornivano l’illuminazione; di fronte al punto in cui loro si trovavano, un rivolo d’acqua scaturiva dalla roccia e si raccoglieva in un bacino artificiale, a cui di tanto in tanto qualche nano veniva ad attingere un secchio d’acqua per qualche scopo domestico, mentre nel centro della caverna un centinaio circa di membri del popolo della montagna era intento a commerciare e a contrattare. La maggior parte della merce in vendita erano viveri esibiti su rozzi panni: funghi, pipistrelli, radici coltivate furtivamente sulla superficie, cacciagione abbattuta con altrettanta cautela.