— Porto il mio tempio nelle sacche della mia sella. Prima d’ora non avete mai incontrato una sacerdotessa che segua i miei riti e dubito che avrete modo di vederne un’altra.
— Ha il marchio sulla faccia, questo è certo — intervenne l’uomo bruno, — ma sono pronto a scommettere che…
— Tieni a freno la lingua, Draudd — ringhiò il rosso. — In questo c’è qualcosa di dannatamente strano. Mia signora, sei davvero sola in questa maledetta foresta?
— E se anche lo fossi? La Dea vede i sacrilegi, per quanto lontano dagli occhi degli uomini essi si possano verificare.
Quando Draudd accennò a parlare, Gweniver si mosse in avanti, sollevando la spada come se intendesse sfidarlo a duello, incontrando al tempo stesso il suo sguardo e sostenendolo fino a costringerlo a distogliere per primo il proprio. Per tutto il tempo, continuò a sentire la presenza della Dea come un’ombra scura alle sue spalle, e il sorriso le rimase fisso sulle labbra; alla fine Draudd si ritrasse bruscamente, con gli occhi sgranati per la paura.
— È pazza — sussurrò al compagno.
— Ti ho detto di tenere a freno la lingua — ingiunse l’uomo dai capelli rossi. — Ci sono i pazzi e ci sono coloro che sono toccati dagli dèi, razza di brutto bastardo! Mia signora, ti chiedo scusa se ti abbiamo disturbato. Ci vuoi elargire la benedizione della tua Dea?
— Ne sarò lieta, ma non sapete quello che state chiedendo — replicò Gweniver, e all’improvviso scoppiò a ridere, un freddo impeto di riso che non riuscì a reprimere. — Venite con me, e poi esamineremo questa faccenda della benedizione.
Con quelle parole girò sui tacchi e si avviò a grandi passi fra gli alberi e anche se sentì che le stavano andando dietro e che Draudd continuava a protestare sottovoce, non si girò a guardare finché ebbe raggiunto il campo. Non appena scorse i due uomini che la seguivano, Ricyn gettò un grido di allarme e corse in avanti con la spada i pugno.
— È tutto a posto — lo rassicurò Gweniver. — Forse ho trovato un paio di reclute.
I cinque uomini si fissarono a vicenda con stupore per un momento.
— Draudd! Abryn! — esplose quindi Ricyn. — Nel nome di tutti gli dèi, cosa vi è successo? Dov’è il resto della banda di guerra?
Soltanto allora Gweniver notò lo stemma che si scorgeva appena sulle camicie lacere e stracciate: lo stemma del cervo.
— Sono tutti morti — spiegò Abryn, con voce fredda e piatta, — e Lord Maer con loro. Una banda dannatamente grossa di guerrieri di Cantrae ci ha attaccati con violenza cinque giorni fa. La fortezza è stata rasa al suolo e che io sia dannato se so che ne è stato della moglie del nostro signore e dei bambini.
— Stavamo cercando di arrivare dal Lupo — aggiunse Draudd; poi, con un sorriso amaro e distorto aggiunse: — Ma devo dedurre che non ci sarebbe servito a un accidente di niente.
— Infatti — confermò Gweniver. — Anche la nostra fortezza è stata distrutta. Avete fame? Abbiamo del cibo con noi.
Mentre trangugiavano gallette secche e formaggio come se si fosse trattato di un banchetto, Abryn e Draudd raccontarono l’accaduto fra un boccone e l’altro. Circa centocinquanta uomini del falso re erano piombati addosso alla banda di guerra del Cervo proprio mentre essa stava lasciando la fortezza alla volta di Cerrmor. Come aveva fatto anche Avoic, Lord Maer aveva ordinato ai suoi uomini di sparpagliarsi, ma Abryn e Draudd avevano entrambi perso il cavallo nel tentativo di uscire dalla mischia. Gli uomini di Cantrae non li avevano inseguiti: avevano puntato dritti verso la fortezza e l’avevano invasa senza preavviso prima che fosse possibile chiudere le porte.
— Le cose devono essere andate più o meno così — concluse Abryn. — In ogni caso la fortezza era già stata presa quando infine noi siamo riusciti ad arrivare fin qui.
Gweniver e i suoi uomini annuirono solennemente.
— Mi sembra — osservò infine la ragazza, — che abbiano progettato la scorreria in modo che fosse contemporanea a quella contro di noi e non fatico a capire ciò che quelle dannate piccole donnole devono avere in mente: vogliono isolare le terre del Lupo, in modo che per il Cinghiale sia più facile conservarle.
— Per quei porci sarà difficile tenere le terre del Cervo — affermò Abryn. — Lord Maer ha due fratelli al servizio del re.
— Senza dubbio non rischieranno di cercare di occupare le terre del vostro clan, perché sono troppo a sud — replicò Gweniver. — Distruggendo la fortezza e uccidendo il vostro signore ci hanno però privati del nostro alleato più vicino e adesso tenteranno di stabilire una solida base nelle terre del Lupo per poi logorare il Cervo a poco a poco.
— Ben detto — approvò Abryn, fissando Gweniver con aperta ammirazione. — Senza dubbio, signora, comprendi bene la guerra e le sue tattiche.
— E quando ho mai conosciuto altro che questa guerra? Sentite, abbiamo dei cavalli di scorta e se volete potete unirvi a noi. Vi avverto però che la Dea che io servo è una dea dell’oscurità e del sangue… è questo che intendevo a proposito della sua benedizione. Riflettete bene, prima di accettarla.
I due ponderarono sulla questione senza distogliere lo sguardo da lei, e infine fu Abryn a parlare a nome di entrambi.
— Che altro ci resta, mia signora? Non siamo altro che un paio di uomini disonorati senza un signore per cui combattere o un clan che ci voglia accogliere.
— Affare fatto, allora. Cavalcate ai miei ordini e vi prometto che avrete la vostra occasione di vendicarvi.
I due le sorrisero con sincera gratitudine, perché in quei tempi un guerriero che sopravviveva ad una battaglia in cui il suo signore aveva perso la vita era un uomo disonorato, respinto da tutti e beffeggiato ovunque andasse.
Nel proseguire il cammino verso sud alla volta di Cerrmor, il gruppetto prese con sé altri uomini come Abryn e Draudd. Alcuni erano superstiti della banda di guerra del Cervo, altri erano cocciutamente restii a parlare del loro passato, ma tutti erano abbastanza disperati da accantonare lo stupore destato in loro dal vedere una sacerdotessa alla testa di una banda di guerra; alla fine, Gweniver si trovò ad avere con sé trentasette guerrieri, appena tre meno di quelli che Avoic sì era impegnato a fornire. L’entusiasmo con cui quegli uomini le avevano giurato fedeltà e la facilità con cui l’avevano accettata erano però tali da destare la sua sorpresa; durante l’ultima notte di viaggio, la ragazza divise il fuoco da campo con Ricyn, che la serviva come un attendente, e parlò con lui delle sue perplessità.
— Dimmi una cosa — gli chiese. — Pensi che questi uomini seguiranno ancora i miei ordini, una volta che saremo a Cerrmor?
— Senza dubbio, mia signora — rispose lui, mostrandosi sorpreso. — Li hai tolti dalla strada e hai dato loro il diritto di sentirsi di nuovo uomini… e poi sei una sacerdotessa.
— Questo ha importanza per loro?
— Oh, ne ha moltissima. Suvvia, tutti abbiamo sentito quelle storie delle guerriere votate alla Luna, ed è una cosa stupefacente vederne davvero una. La maggior parte dei ragazzi pensano che questo sia un presagio… una cosa simile al dweomer… e che tu sia toccata dal dweomer. Noi tutti sappiamo che questo ci porterà inevitabilmente fortuna.
— Fortuna? Oh, non vi porterà fortuna, ma soltanto il favore della Luna nel suo Tempo di Oscurità. Vuoi davvero questo genere di favore, Ricyn? Esso è aspro come un vento che soffi dall’Aldilà.
Ricyn rabbrividì, quasi sentisse soffiare quel vento, e per un lungo momento indugiò a fissare il fuoco da campo.
— Aspro o meno, è tutto quello che mi rimane — affermò infine. — Seguirò te e la Dea, e vedremo cosa lei porterà ad entrambi.
Cerrmor sorgeva sul Belaver, il fiume che costituiva la spina dorsale del regno, nel punto in cui il suo estuario aveva intagliato un ampio porto nelle alture gessose. La città, arricchita dai continui commerci con il Bardek fintanto che il gwerbret ne garantiva la sicurezza, contava oltre ottantamila persone all’interno delle sue alte mura ed era la seconda del regno per grandezza ora che Dun Deverry era stata devastata; partendo da una lunga fila di moli e di banchine, l’abitato si allargava a monte del fiume con una serie di strade tortuose che sembravano onde di pietra in una polla. Una fortezza all’interno di una fortezza, Dun Cerrmor sorgeva su una bassa collina artificiale nel centro della città e non lontano dal fiume; all’interno di una doppia cerchia di mura c’erano la rocca di pietra, gli edifici di servizio e gli alloggiamenti, tutti con il tetto di ardesia: da nessuna parte si scorgeva un solo pezzo di legno a cui potesse essere appiccato il fuoco con una freccia incendiaria. L’esterno della porta principale era protetto da barbicani e le porte stesse erano coperte di ferro e venivano aperte e chiuse mediante un argano.