Siccome il materasso era pieno di pulci, Rhodry preferì sedersi sul pavimento della piccola camera che avevano affittato in una locanda, osservando Jill che era intenta a rammendare uno strappo della sua camicia con la fronte aggrottata per la concentrazione. Jill indossava un paio di sporchi calzoni azzurri e una semplice camicia bianca di lino di taglio maschile, e sebbene anche i suoi capelli dorati fossero tagliati corti come quelli di un uomo, lei appariva comunque talmente bella, con i grandi occhi azzurri, i lineamenti delicati e la bocca morbida, che Rhodry adorava semplicemente restare a guardarla.
— Ah, per la nera anima del Signore dell’Inferno! — imprecò infine Jill. — Dovrà andare bene così… io detesto cucire!
— I miei umili ringraziamenti per esserti abbassata a rammendare i miei abiti.
Con un altro ringhio, Jill gli turò in faccia la camicia; ridendo, lui scrollò l’indumento e fissò il lino un tempo candido e ora chiazzato di ruggine dagli anelli di metallo della cotta di maglia. Sugli sproni spiccava lo stemma del leone rosso, tutto quello che gli rimaneva della sua vecchia vita in cui era stato erede del tierynrhyn di Dun Gwerbyn. Infilatosi la camicia, affibbiò intorno ad essa la cintura, appendendovi a sinistra la spada… una splendida arma del migliore acciaio con l’elsa lavorata a forma di drago… e a destra la daga d’argento che lo marchiava come un uomo disonorato. Quella daga era il contrassegno di una banda di mercenari che viaggiavano per il regno, da soli o in coppie, e combattevano soltanto per denaro e non per lealtà o per onore. Nel caso particolare di Rhodry, la daga denunciava in lui anche una stranezza ancora maggiore, ed era questo il motivo per cui i due si trovavano a Dun Manannan.
— Pensi che ormai il gioielliere sia rientrato nella bottega? — chiese Rhodry.
— Non ne dubito. È una cosa rara che Otho se ne assenti, anche per breve tempo.
Insieme, i due uscirono nelle vie della città priva di mura, formata da uno sparso agglomerato di botteghe e di case rotonde dal tetto di paglia che si allargavano lungo un fiume, sulla cui riva erano attraccate parecchie barche da pesca dall’aspetto così logoro e malandato da far dubitare della loro capacità di stare ancora a galla.
— Non vedo come questa gente possa ricavare di che vivere dal mare — commentò Rhodry.
— Zitto! — Jill si guardò intorno per accertarsi che nelle vicinanze non ci fosse nessuno, e quando riprese a parlare lo fece comunque in un sussurro. — Hanno una ragione per dare l’impressione che quelle barche siano vecchie e malandate. Sotto i pesci, spesso arrivano anche carichi meno raccomandabili.
— Per gli dèi! Vuoi dire che ci troviamo in un covo di contrabbandieri?
— Proprio così, ma parla piano!
La bottega di Otho era al limite estremo della città, in fondo ad un sentiero sterrato di fronte ad un campo di cavoli. Rhodry fu lieto di vedere che la porta non era più sprangata; quando Jill aprì il battente, in alto si udì il tintinnio di un campanello d’argento.
— Chi è? — tuonò una voce profonda.
— Sono Jill, la figlia di Cullyn di Cerrmor, ed ho con me un’altra daga d’argento.
Rhodry la seguì in una stanza vuota, costituita da una piccola fetta triangolare della casa rotonda, separata dal resto mediante sporchi pannelli di vimini, in uno dei quali era inserita una logora coperta verde che svolgeva le mansioni di una porta; spingendo di lato la coperta, Otho sbucò nella stanza esterna. Anche se era alto appena un metro e quaranta, il gioielliere era perfettamente proporzionato e aveva braccia così muscolose da poter essere scambiato per un minuscolo fabbro; il suo volto, circondato da una folta e ordinata barba grigia, era illuminato da astuti occhi neri.
— Bene, Jill, sei proprio tu — commentò il gioielliere. — Mi fa piacere rivederti. Dov’è tuo padre, e chi è questo ragazzo?
— Pa è in Eldidd, dove si è conquistato un posto come capitano della banda di guerra della tieryn.
— Davvero? — sorrise Otho, sinceramente contento. — Ho sempre pensato che fosse un uomo troppo in gamba per portare una daga d’argento… ma tu cos’hai combinato? Sei forse scappata con questo bel tomo?
— Un momento! — ringhiò Rhodry. — È stato Cullyn a darle il permesso di venire con me!
Otho espresse con uno sbuffo la sua profonda incredulità.
— È vero — intervenne Jill. — Pa si è perfino reso garante per lui accogliendolo fra le daghe d’argento.
— Davvero? — Pur mostrandosi ancora sospettoso, il gioielliere decise di lasciar cadere l’argomento. — E cosa ti porta da me, ragazzo? Hai un po’ di bottino da vendere?
— No. Sono qui a causa della mia daga d’argento.
— Non l’avrai per caso intaccata o qualcosa del genere, vero? Non vedo in che modo potresti essere riuscito a danneggiarne il metallo.
— Vuole che la sua daga venga liberata dal dweomer — spiegò Jill. — Puoi farlo, Otho? Puoi rimuovere l’incantesimo posto sulla lama?
Il gioielliere si girò verso di lei, a bocca aperta per la sorpresa.
— So benissimo che quella lama è sottoposta ad un incantesimo — proseguì la ragazza. — Rhoddo, tirala fuori e mostragliela.
Con riluttanza, Rhodry estrasse la daga dal fodero: era un’arma splendida con la lama lucida come l’argento ma al tempo stesso più dura dell’acciaio, formata con una lega particolare che pochissimi sapevano forgiare. Su di essa era intagliato il simbolo di un falco in picchiata (quello un tempo usato da Cullyn, a cui la daga era appartenuta), ma adesso lo stemma era quasi invisibile perché in mano a Rhodry un intenso bagliore di luce creata dal dweomer scorreva come acqua lungo tutta la lama.
— Hai del sangue elfico nelle vene, vero? — scattò Otho. — E parecchio, per di più.
— Ecco, ne ho un poco — ammise con riluttanza Rhodry. — Vengo dall’ovest, vedi, e quel vecchio proverbio secondo cui ci sarebbe sangue elfico in Eldidd è in effetti pieno di verità.
Quando Otho afferrò l’arma, la luce si ridusse ad un tenue bagliore.
— Non ho intenzione di permetterti di entrare nel mio laboratorio — annunciò quindi il gioielliere. — Quelli del tuo popolo sono tutti ladri, non possono evitarlo immagino, e suppongo che anche tu sia stato allevato in questo modo.
— Per tutti gli dèi, io non sono un ladro! Sono un Maelwaedd per nascita e per educazione, e non è certo colpa mia se da qualche parte nel mio clan c’è del dannato sangue elfico!
— Hah! Comunque non intendo permetterti di entrare nel laboratorio — dichiarò Otho, poi si girò e si rivolse ostentatamente a Jill. — Quello che mi chiedi è molto difficile, ragazza, perché io non possiedo il vero dweomer. Questo incantesimo è il solo che sono in grado di fare e non capisco neppure in che modo ci riesco: è soltanto una cosa che ci tramandiamo di padre in figlio… almeno quelli di noi che sono in grado di realizzarla.
— È ciò che temevo — replicò Jill, con un sospiro, — ma dobbiamo fare qualcosa per questo problema. Rhodry non può usare quella daga a tavola finché la lama continua a manifestare il dweomer ogni volta che lui la impugna.
Otho rifletté per un momento, mordendosi distrattamente il labbro inferiore.
— Ecco, se fosse una daga qualsiasi mi limiterei a darvene in cambio una nuova priva d’incantesimo, ma dal momento che è quella di Cullyn cercherò di liberarla dal dweomer. Forse ripetere la procedura a rovescio sarà sufficiente ad attenuare l’incantesimo… ma vi costerà parecchio, perché è rischioso mettere le mani in cose del genere.
Dopo un paio di minuti di accese contrattazioni Jill sborsò cinque monete d’argento, all’incirca la metà del prezzo inizialmente richiesto da Otho.