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John Varley

Linea calda Ophiucus

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Daily Legal Bulletin, pubblicato dall’Ufficio Intersistematico di Ricerca sul Controllo Criminale, Aquarius 14, 568 o.e. Caso di Lilo-Alexander-Calypso contro Il Popolo della Luna. (Compendio Legale — Da distribuirsi immediatamente).

Lo Stato sostiene che Lilo-Alexander-Calypso, nel periodo di tempo dall’1/3/556 al 12/18/567, condusse, volontariamente e consapevolmente, esperimenti su materiale genetico umano con l’intenzione di provocare mutazioni artificiali su detto materiale. Lo Stato contende inoltre che l’imputata ha prodotto blastocisti ed embrioni umani che riflettono strutture potenziali atipiche rispetto allo spettro ammesso dell’Umanità, in violazione al Codice Unificato della Confederazione degli Otto Mondi, Articolo Tre» (Crimini Contro l’Umanità), Paragrafo Sette (Crimini Genetici). Lo Stato chiede la condanna alla morte permanente.

(Lettura di I Classe)

La pratica su Lilo venne aperta quando gli elaboratori CCR notarono che si era interessata a dati della Linea Calda Ophiucus che secondo l’analisi erano probabilmente collegati al DNA umano. Gli agenti Crimcon ottennero un mandato per poter esaminare le registrazioni delle sue richieste e le sue carte d’uso presso la StarLine, Inc., principale concessionaria dei dati elaborati dalla Linea Calda. La banca dei dati della corte suprema autorizzò ulteriori indagini sia tramite proiezione matematica con un computer, che tramite intervento diretto umano. In data 11/10/567 venne spiccato un mandato riguardante la sua casa, i suoi laboratori e la sua proprietà personale, compreso il suo corpo.

(Lettura di II Classe)

Gli agenti Crimcon lo sanno bene, «Lilo era una dura. Furba. Pensavamo di aver fatto centro quando buttammo giù la porta alla Biosystems Research. Niente. Un buco nell’acqua. Nastri, appunti, si cancellavano tutti quando li toccavamo. I decodificatori del CCR masticavano e sputavano. Zip. Fi. Niente. Riprovammo a casa sua; un altro fiasco. Ma era ricca. Dieci anni prima, brevetti genetici sugli Alberi Bananacarne ©. Un mucchio di soldi. Controllammo i viaggi che aveva fatto. Cinque volte su Janus. Saltammo su un cargo a 3-g e abbattemmo la porta, con i laser pronti. Non c’era nessuno, ma una delle sue trappole stava friggendo. Tornammo con due grammi di carne mutata. L’avevamo nel riciclatore. Con i raggi X niente da fare, ma l’aprimmo comunque, e cosa credete che trovammo? Un miliardo e una informazione avvolta intorno alla sua spina dorsale! Mangia la morte, sporca genetica! Il Foro ti aspetta!». Gli agenti Crimcon lo sanno bene, il crimine non rende.

(Lettura per analfabeti)

Fotofumetti e nastri olografici acclusi.

Le prigioni non sono più quelle di un tempo. Avevo fatto qualche ricerca sull’argomento, allorché mi resi conto che il mio lavoro avrebbe potuto portarmi a vederne una dall’interno. Alcune prigioni della vecchia Terra erano piuttosto barbare.

La mia cella non era niente del genere. Era migliore dell’appartamento medio di un secondino. C’erano tre stanze, ben ammobiliate. Avevo un videofono, se non mi disturbava il fatto che un secondino ascoltasse quello che dicevo. Non lo usavo.

In comune con le vecchie prigioni, la cella aveva la caratteristica essenziale: non potevo aprirne la porta. Dietro di essa ce n’erano dozzine di altre, e per me tutte erano chiuse. In ogni stanza c’era una telecamera che seguiva i miei movimenti.

Mi trovavo nell’Istituto Terminale per i Nemici dell’Umanità, tre chilometri al di sotto di Tolomeo, nel Lato Vicino. Ero lì da poco più di un anno. C’erano voluti sei mesi per raccogliere prove contro di me. Il processo aveva richiesto pochi millesecondi di tempo di computer, un mattino, quando ancora non mi ero svegliata. Mi venne comunicata la sentenza — nessuna sorpresa — e la mia esecuzione venne fissata per il mattino seguente. Poi il mio avvocato ottenne un rinvio di sei mesi.

Non mi facevo illusioni. Il rinvio era stato concesso, probabilmente, perché la mia esecuzione doveva avvenire prima della fine del semestre. Nell’Istituto c’era scarsità di Nemici dell’Umanità, e diverse tesi dovevano essere terminate. Due volte al giorno, una delle pareti della cella cambiava colore e cominciava a brillare. Dall’altra parte un professore teneva una lezione di psicologia. Se avvicinavo la faccia, potevo vedere file di studenti seduti in un’aula. Ma ben presto mi stancai di guardare.

Circa una volta alla settimana venivano a visitarmi gruppi di studenti già laureati. Si sedevano sul mio divano, nervosi, concentrati, una serie di ragazze e di ragazzi con volti seri e sopracciglia aggrottate. Mi facevano domande per un’ora, senza evidentemente sapere cosa pensare di me. Agli inizi mi ingegnavo di trovare risposte bizzarre alle loro domande, però mi stancai anche di quello. Talvolta restavo seduta tutta l’ora senza dire niente.

La mia vita si trascinava verso la sua fine.

Lilo-Alexander-Calypso aspettava il mattino seduta nella propria cella. Non aveva ancora deciso se sarebbe riuscita a salire quei gradini solitari. Un anno prima, quando non era così schifosamente imminente, le era stato facile comportarsi da coraggiosa. Adesso si rendeva conto che la sua spavalderia era derivata dalla convinzione profonda che era impossibile che qualcuno la uccidesse davvero. Ma aveva avuto tutto il tempo necessario per pensare. Camera a gas, forca. Sedia elettrica. Rogo. Plotone d’esecuzione. Appesa per il collo finché non sei morta, morta, morta, e possa Dio riciclare la tua anima.

Per fantasiosi che fossero, quei metodi avevano tutti uno scopo semplicissimo. Dovevano far cessare il battito di un cuore umano. In seguito il criterio per determinare la morte era diventato l’attività cerebrale.

Adesso non bastava più. Il fatto triste era che non si poteva più uccidere qualcuno ed essere assolutamente sicuri che quell’individuo non sarebbe riapparso. L’imminente esecuzione di Lilo era quindi soprattutto simbolica, dal punto di vista della società.

Dal punto di vista di Lilo, era invece molto di più. Stava considerando un’idea che le era venuta solo un’altra volta in vita sua: sei mesi prima, alla vigilia del rinvio dell’esecuzione. Stava pensando di suicidarsi.

«E perché no?» si domandò, sorprendendosi di parlare ad alta voce.

Perché no, effettivamente? Pochi anni prima avrebbe potuto trovare mille motivi perché no. Aveva poco più di cinquant’anni, era ancora giovane, la vita le si apriva davanti all’infinito. Ma adesso aveva cinquantasette anni, e di colpo era vecchia. Presto sarebbe stata morta. Morta. Non poteva diventare più vecchia di così.

Fisicamente Lilo aveva venticinque anni. Era popolare avere quell’età, e sebbene a Lilo non piacesse seguire le mode, non si era mai trovata bene con un aspetto più vecchio. Il corpo che aveva era in gran parte quello originale, con poche migliorie chirurgiche. I capelli erano castani chiari, gli occhi erano piuttosto distanti l’uno dall’altro e facevano posto a un naso largo e leggermente schiacciato. Era alta e magra, e le donava.

La sola concessione alla vanità erano le gambe, aveva aggiunto dieci centimetri alle ossa degli arti inferiori ed era diventata alta due metri e due, leggermente sopra alla media quindi. Aveva dei sottili peli marrone, come un cincillà, da metà polpaccio fino alla parte superiore del piede.

Si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro, agitata. Quello che la sorprendeva era che, una volta accettata l’idea di stare per morire, il suicidio cominciasse a sembrarle una prospettiva attraente. Allo Stato della Luna non interessava se lei si uccideva; il mattino dopo sarebbe andata nel Foro, morta o viva. Non era stato fatto nessun tentativo perché nella cella non ci fossero oggetti con cui fosse possibile ferirsi o peggio.