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Tentò di stimolare l’interesse degli altri ingegneri genetici, ma non ci riuscì. Non c’era nessun gruppo politico disposto ad appoggiarla nel tentativo di far abrogare le leggi genetiche. Se nella società umana un tabù aveva sostituito quello del sesso, era la genetica umana. Nessuno voleva esaminare il problema semplicemente perché nessuno lo considerava tale. Lo accettavano come un dato di fatto della vita, nell’ordine naturale delle cose: il DNA umano era inviolabile.

Per un anno Lilo pensò alle alternative che aveva di fronte.

Poteva lasciar perdere tutto. Era una possibilità concreta, e anche adesso non sapeva bene perché avesse continuato. C’erano giorni in cui sentiva l’inerzia della società come una vera e propria droga dentro le vene, che la calmava e le diceva di lasciare le cose come stavano. Se andava bene a tua nonna, perché non va bene a te?

Oppure avrebbe potuto indagare, con cautela. Alla fine fece così. Ma non con sufficiente cautela.

La sua guida fu la Linea Calda Ophiucus. Del gran volume di trasmissioni in codice che giungevano lungo la Linea, almeno il novantacinque per cento rimaneva indecifrato. Ma sembrava che si fosse scoperto quale parte di esse — forse la maggiore — avesse in qualche modo a che fare con il DNA umano. Fece esaminare da un computer parte dei dati di dominio pubblico. Si trattava di un lavoro alla cieca; non aveva un’idea precisa di che cosa stesse cercando. Il campo era così inesplorato che dovette risalire a materiale precedente l’Invasione per trovare qualche opera significativa sull’argomento. Sapeva che un tale lavoro avrebbe richiesto centinaia di ricercatori, scienziati come quelli che esistevano al tempo della ricerca di base e che sospettava ormai introvabili. Era giunta alla conclusione di non possedere un’educazione da scienziata; era un ingegnere, o piuttosto un meccanico.

Le indicazioni erano buone. Non si preoccupò di chiedersi come facessero gli Ophiuciti a sapere tante cose sulla genetica umana; sembrava che conoscessero quasi tutto, ed erano secoli che la razza umana si basava su quel flusso di informazioni. Mise a punto un laboratorio su Janus e cominciò il primo esperimento di arresto sulle proprie cellule ovulari. Non aveva intenzione di produrre esseri umani vivi. Introduceva variazioni e sviluppava il risultato fino a uno stadio fatale, poi si serviva di ciò che aveva appreso per il passo successivo.

Non sapeva nemmeno perché la stesse facendo, quella ricerca. Nei momenti peggiori sospettava di stare semplicemente realizzando i desideri di una bambina a cui piaceva giocare al dottore.

Ma altre volte era confortata da una visione. Non sapeva da dove venisse, ma le sembrava che non facesse davvero parte di sé, che non fosse un prodotto della propria mente. Era una visione indefinita e irresistibile: una razza umana sparsa fra le stelle, diversa, trasformata.

La visione era accompagnata da un’immagine vivida. La vedeva tutte le notti quando si addormentava. Correva fra l’erba alta e gli alberi sotto un sole blu. Era un bel blu, che penetrava dentro la sua pelle e dentro i fiori ondeggianti a una brezza delicata. C’era qualcuno che correva insieme a lei.

Lilo abitava a Terra Natale, la disneyland tascabile di Tweed, e dormiva in una capanna di paglia che era stata costretta a costruirsi da sola.

La prima persona che veniva a trovarla tutte le mattine era Mari. Lilo non sapeva uscire da Terra Natale senza qualcuno che l’accompagnasse. Aveva tentato di farlo più volte, ma non era riuscita a trovare il ruscello d’accesso. Un trucco delle olografie rendeva il passaggio a senso unico. Così ogni mattina Mari veniva a bendarla e le faceva strada attraverso l’acqua.

Ma questa volta le due arrivarono all’argine del ruscello e Mari non prese la fascia di cotone.

«Questa settimana tocca all’Himalaya, vero?» fece Lilo.

«No,» rispose Mari. «Parti oggi.»

«Oggi?» Ma era logico. Se avesse saputo quando sarebbe partita, avrebbe fissato una scadenza per il suo piano di fuga.

«Sì. Prendimi la mano e stringila contro lo stomaco. Non è una cosa molto piacevole finché non ci si abitua.» Portò Lilo a un albero della riva opposta. Lilo era sicura di averlo già esaminato. Cominciarono a girare intorno all’albero…

Tutto sembrò piegarsi sotto di lei e Lilo ebbe un attacco di vertigini. Si fermò. La scena era deformata, come se la stesse guardando attraverso una bottiglia. Mari la tirò.

«Sali,» disse. «Tre gradini. Non cadrai.» Lilo deglutì e fece tre passi nell’aria. Sentiva che c’era del cemento sotto. Stava salendo, ma aveva la sensazione di scendere lungo un pendio verticale. «Gira a sinistra, poi di nuovo a sinistra. Chiudi gli occhi, sarà più facile.» Ma Lilo li tenne aperti. Aveva visto olografie ingannevoli come quelle nei luna-park, ma nessuna era così perfetta. Emersero nel corridoio pieno d’acqua.

«Mi puoi dire dove sto andando?» chiese Lilo. «Così saprò cosa mettere in valigia.»

Mari rise. «No. Sinceramente non lo so.»

Si fermarono al laboratorio di Mari. Un’ora dopo Lilo ne uscì senza il polmone sinistro. Al suo posto c’era un generatore a tuta-nulla, una cosa che non aveva mai usato prima. Con ogni probabilità doveva andare su Mercurio o su Venere, poiché quelli erano i soli posti dove le tute-nulle fossero necessarie. Toccò con curiosità il piccolo fiore metallico che aveva sotto la clavicola — era la valvola di uscita e l’unità di controllo della tuta — mentre Mari le spiegava come farla funzionare. Aveva il collo leggermente indolenzito nel punto in cui Mari aveva installato la radio biauricolare e il microfono uniti alla tuta.

Quando le venne presentato Iphis, Lilo fu sicura di star per abbandonare la Luna. Si trattava certamente di uno spaziale, poiché non aveva gambe. Era chiaramente in una licenza troppo breve per giustificare la spesa di un trapianto di gambe. Era seduto su un cesto imbottito sopra un camminatore a forma di ragno.

Vaffa, come sua abitudine, comparve accanto al gomito di Lilo.

«Dov’è Tweed?» domandò Lilo.

«Ha detto di dirti che non può venire,» rispose Mari. «Vaffa ti accompagnerà. Avevo chiesto di venire anch’io, ma il Capo ha bisogno di me perché c’è un altro prigioniero che… oh, non dovrei dirti queste cose. Ma non importa.» Baciò Lilo. «Odio gli addii,» disse, senza guardarla. «Stai attenta. Forse ci incontreremo di nuovo.»

«Lo spero anch’io.»

Lilo non vide la nave. Seguì Iphis e Vaffa lungo un tubo pieghevole fino alle cabine. Erano molto piccole. Iphis si sollevò dal camminatore sul suo sedile e Vaffa mise il dispositivo fuori dalla porta.

«Sedetevi,» disse Iphis. «Decolliamo fra due minuti.»

Lilo tentò di nuovo. «Dove andiamo?»

«Su Titano.»

Avevano preparato una manovra di avvicinamento a Giove. A Lilo non piaceva ma non disse niente. Non aveva comprato il biglietto e non poteva lamentarsi del servizio.

Ma qualche giorno prima di entrare in orbita, Vaffa le fece una sorpresa.

«Non stiamo proprio andando su Titano. Io ci andrò, alla fine, ma tu no.»

«Io dove vado?»

«In un piccolo posto chiamato Poseidone.»

«Dove diavolo è?»

Vaffa e Iphis si scambiarono un’occhiata. Lilo ebbe la sgradevole sensazione che quel nome avrebbe dovuto dirle qualcosa.

«Prova con J-VIII. J lineetta vu i i i. Numeri romani,»

«Una delle lune retrograde di Giove,» spiegò Iphis. «Una roccia di una ventina di chilometri di diametro, a venti milioni di chilometri di distanza.»