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Lilo si rabbuiò a sentir nominare gli Invasori. Erano venti ore che stavano girando intorno a Giove. Non era una cosa che le piacesse ricordare.

Guardò nuovamente fuori dall’oblò. «Non è il momento di pensare ad atterrare?» La luna stava diventando sgradevolmente grande; non riusciva a scorgerne i contorni. Sulla superficie c’era qualcosa che si muoveva. Con stupore notò che era una persona. Erano vicini fino a quel punto.

«Non si preoccupi. Una nave come questa non può atterrare su un sasso come quello. Si potrebbe far uscire tutto dall’orbita.» Guardò fuori dall’oblò e le sue mani si spostarono sui comandi. Con alcuni sbuffi dei reattori di altitudine, sembrò che si fossero fermati. «Adesso ci tireranno giù con dei cavi e ci fisseranno. Può uscire, se vuole.» Scese con un salto dal sedile. La sua grazia la sorprese. Sapeva che in assenza di peso le gambe erano d’ingombro, troppo potenti per qualsiasi tipo di lavoro. Ma non si era resa conto che erano addirittura pericolose. Il primo giorno di volo si era quasi rotta la testa tre volte. Tutti i viaggi che aveva fatto erano stati su navi a un-g.

Si scoprì a guardarsi intorno cercando qualcosa. La tuta. Un riflesso profondamente radicato tentava di impedirle di entrare nella camera stagna solo con la gonna e la camicia. Le tornarono in mente i secondi terribili della fuga dall’Istituto. Respinse quel ricordo. Le dava noia essere preda di paure irragionevoli. Sapeva che la tuta-nulla funzionava; era entrata in funzione a poche ore di distanza da Giove, allorché il livello delle radiazioni all’interno della nave era diventato pericoloso.

Si chiuse nella camera stagna non appena Iphis e Vaffa furono usciti e premette il pulsante di attivazione. Le venne la pelle d’oca; poi la tuta uscì e lei si sentì mancare l’aria. Vinse il riflesso di respirare affannosamente.

Non era facile abituarsi a una tuta-nulla. Era sconcertante, come ritrovarsi avvolti in uno specchio che circondasse ogni curva del corpo a una distanza di un millimetro, un millimetro e mezzo. Quando si guardava, vedeva un’immagine deformata delle cose, contorte proprio come in uno specchio di luna-park. Ma alcuni particolari erano decisamente allarmanti. Lilo aveva respirato aria per cinquantasette anni, e non era facile smettere di punto in bianco.

La tuta conteneva un collegamento neurale che escludeva la parte del sistema nervoso autonomo che controllava il diaframma. Quando la tuta era in funzione, il riflesso a respirare era assente. Però non era così semplice. Al di sotto del livello a cui venivano controllati la digestione, il cuore e la respirazione, c’era una scimmia primitiva sufficientemente intelligente da rendersi conto che non stava respirando, ma non abbastanza da capire che ci stava provvedendo la tuta. Il risultato era una reazione isterica molto vicina al panico.

Lilo sapeva che sarebbe riuscita a controllarla. Altri l’avevano fatto; su Mercurio e Venere le persone crescevano dentro tute-nulle. Ma per i primi cinque minuti si strinse contro la porta della camera stagna e si sforzò di smettere di tremare. Scoprì che le era di aiuto pensare al processo che la teneva in vita. Visualizzò il trapianto metallico irregolare con cui Mari le aveva sostituito il polmone sinistro. Conteneva un generatore di campo nullo, una riserva di ossigeno di trenta ore e alveoli artificiali collegati al sistema di circolazione polmonare. La tuta-nulla scambiava l’ossigeno con l’anidride carbonica, ma in modo molto più efficiente di quanto non fosse possibile ai suoi polmoni. L’oscillazione del campo della tuta provocava un’azione a mantice che faceva uscire anidride carbonica quasi pura dalla valvola di scarico sotto la clavicola. C’erano anche sistemi sussidiari, quali la radio biauricolare che poteva far funzionare formando le parole con la gola.

Cominciò a stare meglio. Sotto di lei, a circa cinque metri di distanza, c’era la superficie di colore grigio sporco. In alcuni punti avevano tentato di spianarla, specialmente nella zona intorno all’ancoraggio della Terra Natale. Ma per il resto era gelata e tormentata. Una rete di cavi argentei si stendeva fra sostegni metallici. Su Poseidone era l’equivalente di un sistema stradale.

Uscire dalla camera stagna con un salto le era sembrata una buona idea, ma dopo pochi secondi si accorse del suo errore. Nello scendere aveva avuto il tempo di calcolare l’accelerazione di gravità, che era risultata di quasi un centimetro al secondo quadrato, cioè sei millesimi della gravità lunare. Toccò terra — troppo forte, con troppa reazione — ed ebbe il tempo di fare altri calcoli mentre scivolava nuovamente giù, un po’ spaventata questa volta. Ma la velocità di fuga era notevolmente più elevata di quella che potevano produrre le sue gambe. Il pozzo gravitazionale era profondo trecentotrenta metri, in condizioni lunari standard.

Quando fu di nuovo vicina alla superficie stette più attenta. Afferrò un cavo e si tirò giù. Il cavo aveva la stessa lucentezza speculare del suo corpo. Osservò le sue mani argentee che gli si avvolgevano intorno e vide che la tuta si univa al cavo senza che vi fossero segni di congiunzione.

Si tirò verso lo specchio nel quale erano entrati gli altri. Era un altro campo nullo, che proteggeva l’entrata di un recinto sotterraneo. Cercò di passarvi, ma vi infilò solo il collo. Dentro c’era Vaffa: fluttuava in un corridoio di roccia nuda e sorrideva. Lilo si tirò indietro e si tolse la camicia e la gonna, che non erano state racchiuse dalla tuta allorché essa era entrata in funzione. Doveva esserci un modo per farcele entrare, ma non riusciva a capire quale. Entrò, lasciandosi dietro i vestiti.

Vaffa era sempre lì e le porse qualcosa. Una valigia pressurizzata.

«Dovrai imparare a usare i campi nulli,» disse Vaffa. «Non vi può penetrare niente che non sia racchiuso in un altro campo nullo. Tranne che se si è sintonizzati per permettere il passaggio di frequenze luminose. È così che riesci a vedere attraverso la tuta.»

Lilo era furibonda, ma non aveva intenzione di dire niente. Prese la scatola che Vaffa le porgeva e si voltò. Dall’interno la superficie speculare era invisibile. Le sembrava di guardare da dentro un condotto aperto. Nell’uscire venne di nuovo avvolta dalla tuta.

«Cos’è, un’iniziazione?» fece seccamente, ritornando con i vestiti. Il vuoto non le aveva certo giovato. La gonna conteneva plastica volatile in ebollizione.

«No,» rispose Vaffa. «No davvero. Anche se non fa mai male sbattere la testa sul fatto che qui le cose sono diverse.» Fece una pausa e guardò i vestiti rovinati che Lilo stava tirando fuori dalla valigia. «Spero che non fossero i tuoi preferiti.»

Lilo non disse niente.

«Ti darò qualche consiglio utile,» riprese Vaffa. Lilo sollevò lo sguardo, un po’ sorpresa. Vaffa non era mai stata tipo da offrire spontaneamente qualcosa.

«Gratis?»

«Certo,» rise. «Il primo è che quando esci devi tenere i capelli all’indietro, lontano dagli occhi. Il campo schiaccia i capelli contro la testa, con forza, poiché l’aria viene eliminata. Se uno ha i capelli sulla faccia, non ci vede più.»

«Grazie. Me ne ricorderò.»

«Il secondo è di stare attenta quando parli. Quell’affare che hai in gola trasmette tutti i suoni che emetti. Se pensi con troppa intensità puoi scoprire che tutti ti sentono.»

«Ci starò attenta.»

Il corridoio era circolare e non sembrava ancora ultimato. Qualcuno aveva semplicemente scavato un foro, senza preoccuparsi di spianare il pavimento. Strisce gialle e nere indicavano il basso e l’alto e il traffico era regolato da frecce. Lilo sapeva che alla fine avrebbe capito tutto, ma dopo tre curve il suo disorientamento era quasi totale. Era salita o era discesa? Era andata a destra o a sinistra? La striscia gialla indicava il pavimento o il soffitto? Guardare dentro alle stanze che si aprivano sulla galleria ogni cinquanta metri non l’aiutava; i mobili erano attaccati a tutte le superfici possibili.