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Vaffa la condusse in un gabinetto medico. Una donna dall’aria grave era seduta dietro una scrivania attaccata a una parete posteriore.

«Mari!» Lilo avanzò ancora prima di ricordare. Poi si sentì la faccia inondata di sangue. Le orecchie le bruciavano.

«Sì, so che conosceva il mio clone sulla Luna,» stava dicendo Mari mentre fluttuava verso, di loro. «So anche cosa le ha fatto.»

«Sono… spiacente. Io…»

«Non mi dica nulla. Lei non ha fatto niente. È stato il numero tre, e lei è il numero quattro. Tuttavia credo che capirà se le dico che non penso di avere molte cose in comune con lei. Passiamo al lavoro.»

Il lavoro si rivelò essenzialmente di tipo medico. Mari le fece alcuni esami e cominciò a sottoporla a una serie di cure che sarebbero continuate finché fosse rimasta su Poseidone, per annullare gli effetti dell’assenza di peso. Il suo scopo era quello di far sì che il tono muscolare dei residenti restasse al livello di zero virgola nove gi. Mari credeva — come Lilo — che a lungo andare fosse pericoloso abituare i muscoli a condizioni di gravità inferiore.

A Lilo venne dato un tranquillante, per aiutarla a superare il disorientamento; fu portata in una piccola cella, e le fu detto di dormire per otto ore. Dopo di che avrebbe saputo quali erano i suoi doveri nella stazione.

7

La base di Poseidone era un labirinto di catacombe che aveva più di quarant’anni. Si estendeva disordinatamente nella roccia come un cunicolo di termiti nel legno marcio, e per almeno l’ottanta per cento era abbandonata.

Lilo aveva scoperto le sezioni vuote durante il suo primo giorno completo nella stazione, allorché le era stato detto di guardarsi intorno e familiarizzarsi col posto. Alcuni corridoi terminavano con specchi. Quando ci passava attraverso, la tuta la avvolgeva per proteggerla dal vuoto che era dall’altra parte.

Al tempo in cui Tweed era presidente e in grado di incanalare il denaro dei contribuenti nel progetto, Poseidone era una base molto più grande. Adesso che non ricopriva più quella carica e disponeva solo dei propri fondi e di quelli del partito, l’attività del centro era stata ridotta. Tuttavia restava una grande impresa per un uomo solo: coinvolgeva ottanta prigionieri adulti, i loro figli e un numero indeterminato di guardie, tutte cloni dell’onnipresente Vaffa.

Non c’era modo di sapere quante fossero le Vaffa, semplicemente perché non erano mai tutte nello stesso posto. Avevano la loro sezione nella stazione, protetta da un campo nullo sintonizzato per far passare solo loro e per bloccare tutti gli altri. Ce n’erano due modelli standard — maschio e femmina — ed erano completamente prive di capelli. Erano almeno sei, ma avrebbero anche potuto essere il doppio. Era impossibile capire quali fossero i loro turni e quante fossero presenti al di là del muro impenetrabile.

Le misure di sicurezza erano discrete. Nella base tutti potevano spostarsi liberamente, escluso nel reparto delle guardie; a condizione che i compiti assegnati venissero svolti, l’interferenza era minima. Tutte le Vaffa avevano una pistola a laser. Era stato scoperto a caro prezzo che le armi erano efficaci per colpire i prigionieri, ma inutili per sparare alle Vaffa. Potevano passare attraverso un campo nullo purché dietro non ci fosse una Vaffa. Alcuni avevano cercato di modificare i generatori delle proprie tute in modo da bloccare le frequenze dei laser. Funzionava, ma solo all’esterno, quando il campo era in azione. E l’aria nei polmoni bastava solo per trenta ore. Quando i ribelli dovevano rientrare, venivano uccisi.

Lilo imparò tutto questo rapidamente. Sembravano tutti disposti a discutere i precedenti tentativi di fuga, ad ascoltare eventuali nuove idee. Ma tutto ciò che lei proponeva aveva una risposta. L’opinione generale era che Poseidone fosse a prova di fuga. Lilo si riservava di giudicare, ma la situazione non le sembrava promettente.

«Qualsiasi cosa è sempre meglio che essere nella cella della morte,» diceva.

«Non lo so. Penso di sì.»

Il suo compagno attuale era un uomo chiamato Cathay. Lo aveva incontrato qualche minuto prima alla mensa, a colazione. Erano gli unici nella sala; era presto, e gli orari di Lilo non erano ancora sincronizzati con quelli della stazione.

La mensa era una delle zone centrifugate e ruotava lentamente in una cavità della roccia. C’era una ruota più grande che serviva da palestra per corsa e sollevamento pesi, e una terza che conteneva cuccette per quelli a cui non piaceva dormire in assenza di peso.

Cathay era un uomo alto e magro. Aveva una gran massa di capelli arruffati, gambe lunghe e una faccia infantile con un paio di folte basette che sembravano fuori posto. Aveva un aspetto sgradevole, ma non in modo eccessivo, e questo a Lilo piaceva; provava verso di lui — le accadeva di rado — una chiara attrazione fisica, senza averlo neppure toccato né annusato. La bellezza fisica aveva poco valore ed era universale, grazie alla chirurgia estetica, ma tendeva a fissarsi su una dozzina di modelli standard. Lilo era stanca di tutti quanti. Tutti gli stimoli visivi che riceveva da un uomo erano proporzionali a quanto egli si discostava dalla moda corrente.

«Così tu non sei stato rapito dall’Istituto?» gli domandò, ripulendo quanto restava dello sciroppo d’acero con un pezzo di pancake.

«Sono stato rapito, ma non dall’Istituto. Sono stato rapito come gene.»

«Vuoi dire che non hai fatto niente… be’… per meritare di essere qui? Vuoi ancora caffè?»

«Sì, grazie. Quello che ho fatto per finire qui è stato fidarmi di Tweed. Avrei dovuto essere più prudente, ma chi poteva immaginare una cosa simile?»

Lilo mise una tazza di plastica bianca davanti a Cathay, poi si appoggiò allo schienale della sedia, allungò le gambe, e si posò la tazza calda sulla pancia.

«D’accordo,» continuò Cathay. «Mi trovavo in difficoltà, lo ammetto. Ma non ero in prigione. Tweed mi fece una buona offerta. Disse che…» Cathay si fermò e abbassò lo sguardo. Le lanciò un’altra occhiata, sospirò, e riprese, senza guardarla negli occhi: «Sono un insegnante. Ero un insegnante. Non ha senso tentare di nascondertelo. Venni espulso dalla Associazione Educativa. Ingiustamente, secondo me, ma non c’è modo per poterlo dimostrare.» La guardò di nuovo. Lilo scrollò le spalle, decise che non bastava, e gli sorrise.

«Per me è lo stesso,» disse. «Io sono una Nemica dell’Umanità, ricordi?»

«Anche queste sono tutte idiozie,» ribatté pronto. «Non sei la sola qui dentro. Un paio sono veri pazzi, ma la maggior parte sono come tutti gli altri. Sono andati un po’ troppo avanti, ma di solito è avvenuto per qualche ragione di principio.» Sollevò le sopracciglia, ma Lilo non era ancora disposta a parlarne. Non ancora. Non con qualcuno che aveva appena incontrato.

«Continua.»

«Ecco, Tweed mi disse che avrebbe potuto farmi lavorare di nuovo, insegnare ai bambini. Ero davvero disperato. Erano passati cinque anni. Ho bisogno dei bambini, veramente. Comunque l’accordo era che avrei svolto due compiti per lui. Uno, insegnare ai bambini in un luogo remoto e non precisato. L’altro — pensavo che prima avrei dovuto portare a termine il primo — era lavorare per lui su Plutone. Non mi disse di che tipo di lavoro si trattava, né mi interessava saperlo. Dopo qualche anno mi avrebbe lasciato andare e avrebbe pensato a farmi riammettere sotto un altro nome.»

«Allora cosa è successo?» Lilo mise un altro cucchiaino di zucchero nel caffè, sperando di coprirne il sapore. «Questa roba è schifosa.»

«Sì, vero? Vedi, avrei dovuto insospettirmi quando mi disse che avrebbe potuto farmi riammettere. Ciò significa che può accedere, illegalmente, ad alcuni potenti computer governativi. Capisci quello che voglio dire?»

«Sì. Temo di sì. Cosa ha preso? La tua registrazione?»