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Tweed ne era stato felice. Aveva addirittura inviato un sociologo a studiare l’unica società a riproduzione illimitata esistente al di fuori degli Anelli. Sperava di potersi servire di quello che avrebbe appreso come base per la società futura, sulla Terra, dopo la sconfitta degli Invasori.

Ma i bambini erano stati la causa della sola resistenza organizzata di qualche efficacia. I genitori si erano riuniti e avevano detto a Tweed che volevano insegnanti, altrimenti non avrebbero più lavorato. Fu organizzato il primo e unico sciopero. Avevano richiesto venti insegnanti. Ottennero Cathay, e la promessa che se avessero scioperato di nuovo sarebbero stati uccisi tutti. Tweed poteva farlo e sostituirli con un gruppo di cloni esattamente uguali a loro, ma era riluttante. Avrebbe significato la perdita delle nozioni e delle capacità acquisite dai reclusi dalla loro ultima registrazione.

«Hanno cercato di persuadermi a farmi clonare, come le Vaffa,» disse Cathay. «Sarebbe senz’altro la soluzione più pratica, ma non posso farlo. Al solo pensarci sono stato male. Non voglio essere una dozzina di persone.»

«Non c’è bisogno che tu me lo spieghi,» disse Lilo con un tremito. «Fa venire i brividi anche a me.»

Un gruppo di cinque bambini argentei arrivò a rotta di collo lungo il corridoio. Si fermarono quanto bastò perché potessero essere presentati a Lilo.

«… Olympica, Cypris, e quello piccolo laggiù è Iseult. Quello grazioso, là, è mio figlio, Cass.»

Cass era un bambino alto. Lilo immaginò che avesse circa dodici anni, poi dovette guardare attentamente per essere sicura che fosse un maschio, e intanto si domandava se sarebbe mai riuscita ad abituarsi a esseri i cui corpi erano specchi ricurvi. Cominciava a essere impaziente di tornare dentro, dove c’era aria. Non aveva visto le facce di nessun bambino, solo dei riflessi deformati.

Cathay notò il suo disagio e la riportò indietro, lungo il labirinto dei corridoi disabitati. Lilo tirò un profondo respiro, per la prima volta in più di un’ora.

Un Vaffa maschio li stava aspettando. Toccava con noncuranza la pistola che aveva nella fondina e sembrava conoscere la persona che aspettava.

«Comincerai a lavorare con questo turno,» disse. «Seguimi, e ti mostrerò cosa devi fare.»

8

Tweed deve avermi presa per usarmi come una specie di jolly. Non capivo come potessi essere utile ai suoi piani. Non che questo mi disturbasse; non ero divorata dal desiderio di aiutarlo a sconfiggere gli Invasori. Immagino che, in astratto, fossi d’accordo con quel fine, solo che non credevo fosse possibile raggiungerlo. Combattere contro gli Invasori è come voler abolire la legge di gravità.

Però c’erano persone che avevano un lavoro molto più significativo del mio. Se si vuole considerare significativo. Mi vennero mostrati alcuni disegni e alcuni piccoli modelli esplicativi di armamenti pronti per essere prodotti non appena Tweed fosse stato rieletto e avesse avuto accesso agli assegni in bianco che un tempo controllava. C’erano alcune applicazioni spaventosamente nuove della teoria del campo nullo, compresa, per esempio, un’apparecchiatura capace di proiettare un campo sferico a grandi distanze. L’idea era quella di racchiudervi dentro un Invasore e poi restringere il campo fino alle dimensioni di un diametro atomico. Era difficile immaginare una creatura in grado di sopravvivere a un trattamento del genere. Poi si spegneva il campo. In breve: una bomba H in miniatura.

Vidi progetti di astronavi da guerra, di un tipo che non veniva costruito dai tempi precedenti l’Invasione. E tutte le altre cianfrusaglie che si usavano in una guerra: tute autonome da combattimento e fucili, carri armati e granate, bombe a fusione e bombe al neutronio. Sulla carta Poseidone avrebbe potuto sconfiggere qualsiasi pianeta degli Otto Mondi.

Ma a cosa avremmo sparato?

Lilo riusciva a sbrigare il lavoro vero e proprio in non più di un’ora al giorno. Spesso restava in laboratorio più per l’apparenza che per altro.

Da un punto di vista accademico, il primo mese era stato interessante. C’era tutto il gruppo di campioni atmosferici che aspettavano di essere analizzati. Lilo sapeva qualcosa sui materiali organici reperibili nell’atmosfera gioviana per aver letto le antiche ricerche condotte prima dell’Invasione. I chimici e i planetologi avevano ampliato quell’insieme di informazioni e avevano raccolto alcune spore e alcuni microrganismi. Poi, circa un anno prima, qualcosa era andato a sbattere contro il cucchiaio della sonda automatica. Non era molto grande; aveva grosso modo la massa di un topo adulto. Se fosse stato più grande avrebbe distrutto la sonda.

A livello strutturale non ne restava molto. Era una palla di gelatina ghiacciata in metano e ammonio. Ma dal punto di vista cellulare si potevano imparare molte più cose. Lilo portò a termine quel compito nella prima settimana, lavorando dodici, quattordici ore al giorno. Fece una mappa della struttura cromosomica delle cellule intatte. L’organismo assomigliava, sotto molti aspetti, agli animali della parte superiore dell’atmosfera, raccolti dalle sonde inviate su Urano.

Lavorò con Chea, il chimico inorganico, per scoprire le presumibili caratteristiche di quell’organismo. Si vide che le creature gigantesche dei livelli gassosi superiori, come alcune forme di vita superiore di Marte, utilizzavano i catalizzatori e i polimeri in modi che sulla Terra si ritrovavano solo nelle raffinerie. I suoi campioni costituivano un’eccezione. Alla fine della terza settimana, allorché trovò i resti di un sistema riproduttivo, riuscì a clonare una delle cellule. La cellula crebbe fino a diventare una sfera trasparente piena di idrogeno: visse qualche ora all’interno di una precaria camera gioviana, prima di sgonfiarsi. Il pallone era fatto di vinile. Nella parte inferiore aveva un sottile rigonfiamento a forma di croce, contenente una struttura ossea.

Il lavoro successivo fu di pura routine. Con i resti dei campioni preparò una coltura di tessuti e si mise a studiare come si potesse uccidere la creatura. Non c’erano vie di mezzo: o si scopriva la soluzione o non si trovava niente. Se avesse avuto a che fare con una creatura basata su acqua e ossigeno avrebbe trovato una dozzina di modi per attaccarla, semplicemente studiandone i geni e sintetizzando un virus. Ma non esisteva nessun lavoro sulle strutture genetiche degli organismi gioviani. Quasi tutte le proprie ricerche sulla vita terrestre le svolgeva al computer; ma per i geni extraterrestri non esistevano programmi. Per attaccarli doveva introdurre variazioni quasi casuali in punti diversi del gene e poi guardare cosa succedeva.

«Ma Tweed vuole che troviamo un insetto che uccida i Gioviani,» osservò un giorno Chea. «Ci riuscirai in questo modo?»

Lilo alzò le spalle. «Può darsi, però non è molto probabile. Posso trovare qualcosa che uccida queste cose. Ma non i Gioviani, se intendi le creature intelligenti che sono là sotto.»

Era nella galleria adibita alla coltivazione insieme a Chea, Cathay e Jasmine, il capo dei planetologi. Si stavano sporcando tutti le mani con una nuova specie di albero di maiale sviluppato da Lilo e che produceva una pancetta migliore di quella che avevano mangiato fino ad allora. Erano inginocchiati sulla terra scura e calda e parlavano mentre trapiantavano le pianticelle. Erano sovrastati dal lucente mozzo centrale della fattoria, al di là del quale si vedeva la parete più distante del cilindro ruotante. Portavano tutti occhiali scuri e i loro corpi erano coperti di lozione contro gli ultravioletti e di sudore. Era un momento lieto per tutti.

Lilo trascorreva quasi tutto il proprio tempo a coltivare, nel vivaio idroponico e all’esterno, su un lotto di terra che aveva preparato per le piante resistenti al vuoto. Il cibo era già migliore, e lei era diventata una specie di eroina per i reclusi. A Lilo piaceva lavorare con le piante, ma non altrettanto cucinare. Stava insegnando a farlo a Cass e a tre altri ragazzi. Venivano su bene.