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Fu solo quando cominciò ad avvertire una leggera pressione sulla schiena che si domandò come sarebbe morta.

La pressione aumentò con rapidità incredibile. Stava sfrecciando attraverso l’atmosfera di Giove, come una meteora, ma la tuta l’avrebbe protetta. Fu circondata da un alone arancione che diventò così luminoso da non permetterle di vedere nient’altro. Il suo movimento rotatorio si arrestò mentre spinte aerodinamiche la stabilizzavano con la schiena rivolta verso il pianeta e le braccia e le gambe allungate davanti a sé. La decelerazione aumentava velocemente, ma Lilo sapeva che grazie al polmone della tuta che le immetteva ossigeno nel sangue poteva reggerla fino a valori enormi.

La tuta si fece rigida. La sensazione di trazione ai piedi e alle mani era scomparsa. La sola impressione di moto era che la pancia stesse cercando di toccare la spina dorsale. La pelle della faccia era tirata sulle guance e i seni cercavano di trovare una nuova disposizione sotto le ascelle.

Non sapeva assolutamente quanto sarebbe durato. A quel punto doveva essere svenuta, anche se poi non ricordò di averlo fatto né di aver riacquistato i sensi. Ma la pressione era scomparsa. Aveva raggiunto la velocità massima per gli strati superiori dell’atmosfera e stava cadendo per effetto dell’attrazione di gravità, quasi in assenza di peso. Si guardò intorno cercando di vedere il buco nero, i cui effetti sui gas che lo circondavano avrebbero dovuto essere visibili. Poi ricordò che l’atmosfera non avrebbe affatto rallentato il buco; esso doveva aver già attraversato metà pianeta. Quindi sarebbe sicuramente stato Giove a ucciderla.

L’aria era limpida e nuvole altissime si levavano intorno a lei. Di tanto in tanto, allorché i venti la investivano e là spostavano di lato, era sottoposta a brusche accelerazioni.

Era una cosa al di fuori del tempo, la caduta. Agli inizi aveva seguito le antiche abitudini, tentando di calcolare quanto le ci sarebbe voluto per raggiungere le nuvole scure sotto di sé, quale poteva essere la temperatura al di fuori del campo della tuta, a quale densità i gas l’avrebbero fatta galleggiare. Poi però si accontentò di guardare. Era uno spettacolo stupefacente. Se doveva morire, sarebbe potuto capitarle di peggio che andare incontro alla morte in quello scenario, da sola.

Non durò a lungo. Raggiunse lo strato di nuvole e la visibilità diventò nulla. Non vedeva niente, solo la mano argentea che si teneva davanti agli occhi per essere sicura di non essere ancora morta. Era possibile morire senza saperlo?

Il fatto che la sua mente non smettesse di funzionare cominciò a disturbarla. Non avendo niente da fare né da vedere, cominciò di nuovo a riflettere. Cosa l’avrebbe uccisa? Sarebbe sopravvissuta a tutto e sarebbe morta appena terminata la riserva di ossigeno? Sarebbe stata una morte comoda, perdere a poco a poco coscienza e non risvegliarsi più.

Ricordò la valvola di uscita della tuta, il fiore metallico che aveva sotto la clavicola per l’espulsione dei gas di scarico e del calore. Era costruito in una lega molto resistente, ma avrebbe potuto surriscaldarsi, otturarsi, fondersi. In quel modo la morte sarebbe stata più rapida, e forse più dolorosa. Ma non poteva farci niente. Provò un momentaneo rimpianto per il fatto che non sarebbe riuscita a raggiungere lo strato di idrogeno liquido caldo. Sarebbe stata senz’altro una cosa da vedere.

Più tardi, con maggiore freddezza, si rese conto che probabilmente sarebbe stato monotono quanto quello schifoso strato di nuvole che stava traversando.

Ma all’improvviso sbucò fuori dalle nubi. Un ampio spazio semibuio le si aprì davanti. In realtà era molto più luminoso di quanto si sarebbe aspettata, considerando lo spessore dello strato di nuvole soprastante.

Per qualche motivo, venne ripresa da una paura paralizzante. Non poteva far niente per respingerla. Alcune parti della sua mente avevano esaminato la situazione da un punto di vista diverso, giungendo alla conclusione che non aveva possibilità di scampo. E non volevano accettare il fatto.

Svenne di nuovo, o ebbe un attacco di pazzia. Adesso le nubi erano molto più vicine, un miscuglio di forme rosse e viola orlate di sprazzi luminosi (bianchi, con vaporosi fondi grigi) che si agitavano e ribollivano come un calderone di torpedini elettriche.

C’erano alcune forme gialle appena visibili, che guizzavano dal banco di nubi sotto di lei — (sopra di me, sospese in un cielo azzurro) — nell’aria più limpida, poi di nuovo nell’oscurità. Erano quasi certamente vive. Si domandò se fossero Invasori, o membri della razza gioviana intelligente, o solo degli animali.

(Il terreno era soffice, cedevole. Ne afferrai una manciata; me lo feci passare attraverso le dita. Sabbia. Mi ci infilai agitandomi, cercando di seppellirmici. Una brezza mi rinfrescò il corpo e spinse le soffici nubi bianche nel cielo azzurro, sopra di me. Una forma gialla sfrecciò fuori da una delle nubi) … e poi di nuovo dentro il banco di nuvole. Si stavano avvicinando. Aveva riacquistato una calma distaccata e si domandò se avrebbero cercato di mangiarla. Le facevano male gli occhi, per lo sforzo di guardarle…

(A sinistra, a destra, si allontanano, poi… Ouch! Mi si sono incrociati gli occhi e comincia a farmi male la testa. Mi sono messa le mani sulla faccia, contenta della sabbia ruvida con la quale mi sono sfregata. Sono rotolata sulla sabbia, giù, sentendo duro sotto di me, umidità, pendio)stava salendo, puntava direttamente verso di lei. Non riusciva a capirne la forma. Al centro, se si poteva dire che avesse un centro, c’era un foro, e in mezzo al foro c’era un albero (un albero) e la sensazione di sabbia nella bocca, acqua (che mi investe, che mi fa rotolare, che mi tira, nella bocca e nel naso) sale e sabbia e un rumore rombante. Disorientamento, tempo che scorre lateralmente, una sensazione di nausea che aumenta in fondo allo stomaco…

Mi alzai nell’onda e barcollai come un’ubriaca, nuda, bagnata, confusa. Feci un passo e caddi mentre la terra ondeggiava. Sulle mani e sulle ginocchia, vomitai nell’acqua schiumosa. Cominciai a trascinarmi, intontita, concentrata completamente sui ciuffi bagnati di capelli che mi penzolavano davanti, oscillando. Vidi le mie mani che afferravano la sabbia, e sarebbero potute appartenere a qualcun altro.

Il sole stava tramontando. Era la cosa più maestosa che Lilo avesse mai visto.

Si rannicchiò sotto un gruppo di arbusti battuti dal vento, stringendosi le gambe contro il corpo. Il vento veniva dal mare ed era freddo. Batteva i denti. Forse sarebbe congelata prima della fine della notte.

Le era impossibile ricordare quando aveva deciso che non era morta, che quello non era l’aldilà. Era restata molte ore stesa sulla sabbia, insensibile, con la mente ingombra di troppe cose impossibili. La lucidità era tornata solo gradualmente, con cautela, pronta a svanire di nuovo in un qualsiasi momento.

Il freddo l’aveva aiutata. La percezione di quel disagio l’aveva costretta a controllarsi, a strisciare al sottile riparo delle piante, a rannicchiarsi per combattere i brividi.

Mentre guardava l’oceano col sole che tramontava dietro di lei, si era resa conto di sapere dove si trovava. Le stelle spuntarono a una a una, tremolando debolmente. Dunque ammiccavano, non era una favola per i bambini.

Scese la notte, e dopo molte ore di brividi e di fame qualcosa si levò sopra le acque. Era la Luna.

Era nel continente nordamericano e stava guardando l’oceano Atlantico.

La regione era piatta. Erano diverse ore che Lilo camminava verso sud, sulla spiaggia. Una volta si era spinta verso l’interno per qualche centinaio di metri, ma il terreno era soffice e bagnato e nuvole di insetti si erano alzate a tormentarla. Aveva la pelle punteggiata di macchioline.