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Non aveva un vero piano, se non quello di continuare a muoversi. Sperava di trovare un riparo e possibilmente qualche pianta commestibile. Aveva esaminato alcune bacche verdi e un tipo di alga marrone, le aveva assaggiate tutte e due e aveva ripreso a camminare. Avrebbe dovuto avere molta più fame per ridursi a mangiarle. Stava evitando l’idea di catturare animali e cibarsene. Tutte le carni che aveva mangiato fino ad allora venivano da piante mutate. Non aveva considerato il fatto che forse non sarebbe riuscita a catturare niente. Una parte della sua mente non riusciva a smettere di pensare che quella fosse una disneyland al di sotto della superficie lunare. Sarebbe stato facile crederlo, a parte la costante pesantezza che avvertiva. Le caviglie e i polpacci le pulsavano a causa della gravità e del continuo scivolare della sabbia sotto i piedi.

La spiaggia si restrinse fino a diventare un punto; a ovest c’era l’estremità settentrionale di una grande baia. Si lasciò cadere sulla sabbia e guardò la terra dall’altra parte. Era troppo lontana per raggiungerla a nuoto, così dovette decidere se tornare indietro o continuare lungo la parte interna della baia. Dalla sua posizione non era possibile sapere se fosse davvero una baia o se si trattasse di un’isola.

Rimase sorpresa nel rendersi conto di quanto fosse stanca. Le girava la testa e si sentiva accaldata. La sabbia le sembrò molto comoda quando ci si stese sopra e si girò su un fianco per proteggersi la faccia dal sole. In pochi minuti si addormentò.

Lilo si svegliò con un dolore che non aveva mai provato.

Si alzò in piedi gridando. Si sentiva divorata dalle fiamme e cercava freneticamente di spegnerle. Ma toccandosi non faceva che peggiorare la situazione.

Niente di quello che aveva provato prima d’allora l’aveva preparata a tanto. Le poche volte che si era fatta male, il dolore era stato facilmente controllabile; le era bastato arrivare a uno dei terminali di pronto soccorso che si trovavano a ogni angolo. Quando vide che il dolore durava da quindici minuti e non dava segni di diminuire, perse la testa e corse alla cieca sulla spiaggia finché non cadde.

Dopo un po’ notò che il dolore continuava a essere forte come prima ma riusciva a sopportarlo. Si alzò a sedere, si asciugò le lacrime e si esaminò. Era rossa come una ciliegia dalle caviglie alle spalle. Aveva ustioni profonde su tutta la schiena.

Non aveva pensato che sulla Terra potesse succedere una cosa del genere. L’atmosfera doveva agire da schermo protettivo contro i raggi ultravioletti, altrimenti non avrebbe potuto esserci vita. Non si era mai trovata a pensare ai possibili effetti dannosi della luce del sole. Le sole volte che aveva avuto a che fare con essa, o era dentro una tuta o dietro lo schermo di plastica di un solarium pubblico.

Capì che c’erano lezioni che era meglio imparare.

Adesso il terreno era meno paludoso. Dopo aver seguito la baia, aveva deciso di spingersi all’interno appena la riva aveva cominciato a curvare verso ovest. Vicino all’acqua non aveva trovato niente di commestibile; sperava di avere maggiore fortuna nell’interno.

Lilo notò che allorché andava verso nord — per quanto riusciva a valutare — procedeva senza molte difficoltà. Quando si dirigeva a est o a ovest, il terreno era segnato da grosse fenditure. Gli alberi e il sottobosco non le permettevano di vedere la zona, cosicché solo salendo su una collina poté guardare in basso e rendersi conto che stava attraversando i resti di una città. Aveva camminato per un’ampia strada. Su entrambi i lati c’erano file regolari di buche, quasi tutte ingombre di rovi e piene d’acqua a metà. Un tempo c’erano state delle case, e ora non restavano che le fondamenta.

La distruzione era stata metodica, ma non assoluta. Rimanevano tracce di artefatti sotterranei, di oggetti in cemento e acciaio mezzo sepolti. Trovò un pezzo di conduttura di rame che sporgeva di due metri dal suolo.

Camminò tutto il giorno, e quando restava solo un’ora di luce solare, arrivò in un punto in cui la baia si restringeva e sembrava piuttosto un fiume. Constatò stupita quanto poco riuscisse a capire della natura del terreno nonostante ci stesse camminando sopra. La zona al di là del fiume assomigliava molto a quella che aveva già visto. In alcuni punti essa distava meno di un chilometro, in altri era più lontana. Non sapeva se la terra più vicina fosse un’isola sul fiume o una punta che si allungava dall’altra parte.

In mezzo all’acqua, davanti a lei, c’erano due isolette, ed era certa che erano artificiali. Guardando più attentamente la collina su cui si trovava, scoprì una costruzione in muratura. Un tempo il fiume era stato attraversato da un ponte sospeso, non c’erano dubbi.

Scese giù dalla collina e ne esplorò i fianchi, cercando l’entrata di un’eventuale stanza nascosta. La notte era vicina e sperava di trovare un qualche riparo. Ma non c’era niente.

Un grosso felino maculato la osservava dai rami di un albero. A parte i gabbiani e i granchi, era la prima forma di vita animale che incontrava. Lilo sapeva qualcosa delle specie animali, ma quella non la riconosceva. Poteva sembrare un giaguaro, o un leone africano, ma di taglia più piccola. Gli voltò la schiena e riprese a camminare.

Qualcosa la fece girare.

Vide il felino con la coda dell’occhio, poi se lo trovò faccia a faccia. Era sceso a terra e correva verso di lei a velocità incredibile. La sua testa diventava sempre più grande nel suo campo visivo. Aprì la bocca e saltò.

Gli eventi si susseguirono troppo in fretta perché Lilo riuscisse a seguirli. Ricordò di aver sentito il rumore di una collisione, e il felino che la urtava, sbattendola a terra, Lilo vide confusamente l’animale che si leccava una zampa posteriore e il sangue che spruzzava da dove gli si era conficcata una lunga asta di legno. Poi il felino si alzò e cominciò a muoversi, e lo stesso fece Lilo. La cosa successiva che ricordò fu di essere salita tre metri su per un albero, con le mani sanguinanti.

In basso c’era un essere umano, in lotta col felino: la belva l’aveva addentato a un braccio, mentre l’uomo la colpiva con una piccola ascia. Vide la bestia cadere al suolo e l’uomo raddrizzarsi. Alzò gli occhi su di lei, poi si guardò l’avambraccio e osservò la bestia: aveva la testa spezzata in due, ancora fremente. Lilo scese lentamente dall’albero.

«Sei solo un ragazzo,» esclamò sorpresa. Lui la guardò di nuovo, nervosamente, senza capire. Lei cominciò a domandarsi se fosse davvero un ragazzo.

Era basso, non arrivava neppure a due metri. Sarebbe potuto stare sotto il braccio teso di Lilo. Aveva i capelli biondi e indossava vestiti succinti e scarpe di pelle. Riesaminò i suoi ricordi di antichi tipi razziali e decise che era scandinavo. Aveva la faccia lunga, e la fronte alta.

«Grazie per quello che hai fatto,» disse Lilo. «Ma non mi capisci, vero?»

Lui alzò gli occhi e sorrise. Gli mancavano tre denti davanti.

«Credo di non aver mai visto nessuno sporco come te,» esclamò Lilo. «Tranne me, forse.» Continuava a parlare in tono amichevole, e in effetti non aveva paura di lui. Poi si chiese se invece non avrebbe dovuto averne e fece un passo indietro. Aveva già commesso due errori, con il sole e con il felino, e non voleva che quello fosse il terzo. Cercò di ricordare qualcosa delle tribù primitive della Vecchia Terra. Le poche cose che le vennero in mente non la incoraggiarono a pensare di fidarsi di lui.

Il giovane disse qualcosa, e le parve di riconoscere alcune parole. Lui annuì e le rivolse un ghigno, fece alcuni gesti incomprensibili e infine indicò il sole.

Parlava un americano corrotto e probabilmente accennava alla notte imminente. Lilo ne era molto contenta. L’americano aveva le stesse radici dell’inglese, o forse era il contrario? Lilo non conosceva bene la storia. Ma sapeva che il suo linguaggio sistematico era un miscuglio di radici inglesi e russe. Pensava che sarebbe riuscita a parlare con lui.