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Decise di seguirlo per vedere se avesse cibo e un riparo che fosse disposto a dividere. Quando si voltò e la vide sembrò che approvasse. Lei doveva costringersi a ricordare che poteva essere pericoloso, specialmente se stava tornando a una tribù di individui simili a lui. Restava tuttavia il fatto che lei non aveva la tendenza a sospettare degli stranieri. Il pensiero che lui potesse usarle violenza le era così estraneo che presto lo dimenticò.

La portò in una caverna nascosta. Vi si accedeva per una scala di cemento, celata dietro un cespuglio di arbusti, e dentro era grande e piana. All’inizio pensò che si trattasse di un sottosuolo con ancora il tetto, ma quando lui accese un fuoco, capì cos’era stato quel posto: sulla Luna una stazione di treni locali era ancora grosso modo uguale a quella.

Lilo si domandava cosa dovesse aspettarsi da quell’uomo. Le sue nozioni sulla vita e le abitudini dei barbari erano praticamente nulle. Ricordava, però, alcune storie sul fatto che le donne avevano occupato una posizione sociale del tutto diversa da quella degli uomini, prima che i cambiamenti di sesso ponessero rimedio a tutta la questione. Si chiese se lui avrebbe voluto cop, poi — e fu un trauma — pensò se considerasse un proprio diritto farlo. Sarebbe stato molto sorpreso, si disse.

Ma sembrava un po’ in soggezione nei suoi confronti. Continuava a guardare i peli sulla parte inferiore delle gambe, e quando lei si alzava, restava a bocca aperta davanti alla sua altezza. Dopo poco Lilo scoprì che le ferite gli facevano male. Gli esaminò il braccio che era stato morso. Non protestò, e quando lei gli sorrise in modo incoraggiante, rispose con un sorriso. Non sembrava grave, solo quattro fori profondi e alcuni tagli.

Ancora una volta dovette controllarsi. Sulla Luna una simile ferita non avrebbe avuto nessuna conseguenza, una volta debellato il dolore. Lì ci potevano volere giorni prima che guarisse.

Si chiamava Makel, e cinque giorni dopo era morto.

La ferita non guarì mai. La curava con acqua e diverse foglie e unguenti, ma peggiorava di giorno in giorno. Cominciò a puzzare. Lilo capì di essere stata superficiale e imprecò contro la propria stupidità. Ma i problemi di sterilizzazione le erano sconosciuti come gli istinti predatori del felino che l’aveva quasi uccisa. La Luna era stata, fin dagli inizi, un ambiente privo di batteri. Guanti di gomma, maschere facciali — anche l’acqua bollita che avrebbe potuto usare per medicarlo — erano ignoti nella chirurgia lunare.

Continuò a essere in forze fino all’ultimo, a dispetto dell’infezione che si diffondeva. Andava tutti i giorni a caccia e lei lo accompagnava. Non ci fu il tempo per imparare molto, ma riuscì a capire alcuni metodi di sopravvivenza fondamentali. Imparò a stare sempre in guardia. Quello era un mondo diverso, che l’avrebbe uccisa se lei gliene avesse offerta la possibilità. Apprese quali bacche e quali frutti mangiare e quali radici scavare.

Alla fine fu sopraffatto dalla febbre. Lei gli rimase accanto, asciugandogli il sudore dalla fronte, dandogli un sorso d’acqua quando lo chiedeva. Lo spogliò e lo lavò, e scoprì che la sua prima impressione era stata giusta. Non era un adulto, ma non era neppure un bambino. Avrà avuto quattordici o quindici anni.

Una notte Lilo si accorse che era freddo. Non sapeva da quanto tempo fosse morto. Si posò la sua testa in grembo e si dondolò avanti e indietro, piangendo silenziosamente. Non aveva mai visto un essere umano morire. Continuò a cercare di convincersi che non era stata colpa sua, ma non ci credette mai.

11

Oro. Tutto era giallo dorato.

Fluttuavo nella luce bassa; conscia, distaccata da tutto tranne che da quel colore. Il liquido cominciò a defluire dalla vasca e io continuavo a galleggiare, asciutta, a mezz’aria.

Una scossa mi fece rendere conto delle sedici fonti di dolore sottili come uno spillo; le braccia e le gambe si agitavano convulsamente, ma il mio cuore non si metteva a battere. Poi una sensazione familiare: avevo picchiato con un ginocchio.

Un’altra scossa e il mio cuore pulsò. Ero viva, ed era l’ora. Avrei preferito morire che sopportare un’altra scossa. Respirai profondamente e venni squassata dai colpi di tosse. Battei la testa contro il bordo della vasca e ritirai le mie mani fredde dal bernoccolo: erano rigate di sangue. Me ne era entrato un po’ nell’occhio sinistro, tingendo di rosa il giallo dorato.

Il coperchio della vasca si aprì con un sibilo delle guarnizioni di gomma. Una cintura mi avvolgeva il petto e ci armeggiai sopra. Mi sentivo le mani come guanti di gomma gonfi. Mentre ero seduta e mi massaggiavo i piedi raggrinziti, il resto dei miei sensi mi assalì e mi fece star male. Volevo sputare la lingua.

Le punte delle dita e i piedi sembravano antichi, mummificati. Cercai di mettere a fuoco gli occhi sulla stanza, socchiudendoli, liberandoli dal sangue.

«Voi chi diavolo siete?»

La stanza era piccola. Non era stata costruita per contenere tre persone. Fortunatamente, in assenza di gravità nessuno doveva stare seduto, neppure Lilo; era così debole che, in un campo gravitazionale, non sarebbe neppure riuscita a sollevare le braccia. Galleggiava in aria, riscaldandosi le mani su un tubo di brodo. Beveva a piccoli sorsi dal bocchino, dopo aver visto a che disastro andava incontro se cercava di bere più in fretta.

«Credo di avervi perduto un’altra volta,» disse stancamente. La cosa che desiderava di più era tornare a dormire. La testa le pulsava e le voci erano confuse. «In che anno siamo, avete detto?»

Cathay sospirò, il che irritò Lilo e le rese più difficile credere a ciò che le diceva. La storia era già abbastanza incredibile senza dover anche accettare il fatto che il suo clone aveva amato quell’uomo.

Ma Parameter continuò con pazienza infinita.

«L’anno è il 571, il mese è Capricorno. Sei stata arrestata nel Sagittario del 568 e giustiziata un anno dopo. Cioè, è stato il tuo clone a essere giustiziato, secondo Cathay. La Lilo originale è vissuta un altro po’ di tempo, poi è stata uccisa anche lei. Un secondo clone — apparentemente già pronto, se i tempi sono giusti…»

«È il normale modo di procedere di Tweed,» intervenne Cathay.

«Sì. Il secondo clone è stato ucciso mentre cercava di fuggire, come la Lilo originale. Il terzo clone è stato mandato su Giove, dove ha incontrato Cathay ed è stato…»

«Sì, sì, questa parte la ricordo,» annuì Lilo. In realtà non voleva sentir dire di nuovo che era stata uccisa. I particolari delle avventure del suo clone su Poseidone le erano oscuri. Poteva sempre chiarirli in seguito.

«Ora, perché il… Mi sembra che avrei dovuto essere risvegliata prima. Cosa è successo?»

Parameter fece una pausa, come se avvertisse che Lilo era rimasta turbata da quella storia.

«Forse dovremmo lasciarti riposare, prima di continuare.»

Lilo sollevò lo sguardo. Parameter/Solstizio era una figura comica, un essere umano fatto da un bambino con la plastilina. La sola parte visibile del corpo di Parameter era la bocca, dalla quale Solstizio si era ritirato in modo che la sua partner potesse parlare con gli altri. La figura aveva fianchi grossi, una vita sottile e niente collo; c’era solo un grosso pezzo del corpo di Solstizio che copriva la testa e le spalle. Ma Lilo non rideva. A differenza della maggior parte degli esseri umani, era un po’ in soggezione davanti alla simmetria perfetta che rappresentavano.

«No, continua. Mi riposerò più tardi. Comunque grazie.»

«D’accordo. Sei in un corpo clonato; conoscevi la situazione, quindi ti aspettavi una cosa del genere. Però questo non è il clone che lasciasti sette anni fa. Quello è morto.»