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Lilo e Vaffa sbarcarono dall’espresso a cinque gi a Porto Florida, malferme e depresse dopo aver galleggiato per otto giorni in una vasca per accelerazione. Lilo continuava a tossire emettendo umori bavosi e verdastri, e una specie di catarro le gocciolava costantemente dal naso. Aveva provato a leccarlo, ma era stato peggio.

Alla ricerca di qualcosa per eliminare quel sapore, vide un distributore di bevande e ci infilò una delle banconote marziane datele da Vaffa.

«Questo non posso cambiarlo,» disse la macchina. «Ma se depositi il denaro possiamo contrattare.» La macchina spiegò che era una filiale autorizzata della Banca Planetaria della Florida. Per pochi secondi si accese una scritta luminosa: INTERESSI MATURATI. Lilo prese la bottiglia di bevanda, e le venne rilasciato il conto insieme ad alcune monete plutoniane. Vaffa le consigliò di gettarle nel riciclatore, visto che non valevano praticamente niente.

Plutone era in piena spirale inflazionistica. Il denaro veniva datato alla stampa e doveva essere speso alla svelta prima che il suo valore scendesse. Ogni lunedì mille Marchi Vecchi diventavano equivalenti a un Marco Nuovo. Se il denaro aveva più di una settimana, poteva anche essere bruciato; non ci si sarebbe potuto comprare nemmeno la carta su cui era stampato.

Lilo e Vaffa aspettarono nella stanza di ricovero dello spazioporto che i medici certificassero che avevano superato gli effetti dell’alta accelerazione. A pochi passi di distanza c’era una fila di negozi specializzati nel rivestire i viaggiatori nudi che emergevano dai voli provenienti dai Pianeti Interni. Lilo voleva fermarsi.

«Qui no,» le consigliò Vaffa. «Sono dei ladri.»

«Che importa?» fece Lilo. «Siamo ricche, no?» Entrò nella Underworld Boutique.

Dentro venne insaponata, lavata, oliata e massaggiata finché si sentì più un essere umano e meno un sottaceto. Cominciò a perdere alcuni dei nodi ai muscoli che per giorni affliggono i viaggiatori a gravità elevate. Disse ai commessi di rivestirla.

Fra tutto quello che le portarono, scelse una camicia rossa con borchie in vita, ai polsi e al collo. Aveva maniche a sbuffo, ma per il resto era pratica, con molte tasche e un cronometro incorporato. Volevano dipingerle le gambe, ma rifiutò con fermezza. Comprò un cappello e delle pantofole; aveva le piante dei piedi avvizzite come prugne. I commessi cercarono di venderle tintura da viso, un vestito da olomista, pantaloni e una pelliccia di visone vivo, ma lei pagò e uscì. Non era abituata ai venditori aggressivi e non le piacevano. Vaffa non comprò niente.

«Non porti mai vestiti?» le chiese Lilo.

«Non mi piacciono. Impacciano nella lotta. Qualche volta porto una cintura con una fondina, ma non in pubblico.»

Vaffa si guardava intorno nervosamente. Lilo aveva notato che non amava la folla, neppure sulla Luna. Qui sembrava molto a disagio. I suoi movimenti erano rapidi e scattanti, come se cercasse di controllare tutti gli angoli contemporaneamente.

«Dove andiamo?»

«Ho un indirizzo. Forse è meglio se troviamo una carta.»

A Plutone piaceva considerarsi un luogo di frontiera. Ma dopo trecento anni di colonizzazione continua, l’idea cominciava a dar segni di invecchiamento. Nel complesso, Plutone era urbanizzato quanto qualunque altro degli Otto Mondi. Le sue città, però, tendevano a essere più rumorose e appariscenti. C’era un’atmosfera di ostentazione, un assalto continuo del cattivo gusto e dell’esibizionismo commerciale e personale. Entrambe le donne lunari lo trovarono sgradevole.

Gli spigoli irregolari delle costruzioni talvolta non venivano terminati. I tappeti nei corridoi erano alti e soffici, ma in alcuni punti non combaciavano, e avevano i bordi sfilacciati che non arrivavano alle pareti e macchie marrone chiaro agli angoli. A un certo punto il marciapiedi mobile le fece passare davanti a una sezione di roccia nuda dove gli operai stavano installando materiale isolante e un rivestimento di plastica. La roccia era ricoperta di ghiaccio; succhiò il calore da un lato del corpo di Lilo.

Arrivarono al Centro, cuore della rete di marciapiedi mobili e stazione principale per le capsule metropolitane che andavano versò i sobborghi, gli avamposti e le comuni. Scesero e si guardarono intorno. Il soffitto era due « chilometri sopra di loro, ma alcuni degli alberi del Parco del Centro sembravano sfiorarlo. La vasta zona cilindrica era percorsa da otto arcate alle quali si accedeva con ascensori di vetro sospesi a cavi trasparenti. Sembrava che tutto si muovesse o lampeggiasse per richiamare la loro attenzione.

Lilo si sentiva oppressa, estranea. Le venivano le vertigini. Era una vera Lunare, conservatrice sotto molti aspetti. Si vestiva per comodità, non per bellezza. Lo spreco e la frivolezza la offendevano. Era una conseguenza dell’Invasione, che in svariati modi distingueva la società lunare dal resto dello spazio umano.

La Luna era stata colonizzata direttamente dalla Terra. All’arrivo degli Invasori, le poche migliaia di esseri umani sulla Luna si prepararono alla lunga lotta per l’autosufficienza. Non erano pronti; l’autonomia sarebbe dovuta arrivare trent’anni dopo. Ma la sopravvivenza della specie dipendeva da quello che sarebbero riusciti a fare.

I primi cinquant’anni furono durissimi. Molti erano morti nei sorteggi selettivi e nella violenta lotta contro di essi quando era risultato chiaro che la popolazione doveva essere ridotta. I sopravvissuti si erano sacrificati ancora di più, per far sì che i martiri non fossero morti invano.

La lotta aveva lasciato il suo segno sui Lunari. Avevano la tendenza a essere conservatori in politica e nella morale. Rimanevano attaccati a un fantasma di democrazia rappresentativa, mentre le colonie tendevano verso un Selettivismo a Prove. Il sesso neutro non aveva mai fatto presa. Le mode di Marte e di Mercurio avevano poco successo sulla Luna. Con il tabù della pudicizia ormai diventato un’aberrazione quasi dimenticata, il Lunare medio di solito indossava un panciotto-di-tasche, portava una borsa a spalla o andava in giro nudo. Era quasi un’uniforme, e il resto dell’umanità ci faceva sopra innumerevoli battute.

Sulla Luna un chirurgo creativo poteva fallire. Pochi si impegnavano in gambe extra in posti strani, in teste invertite, in nuove forme nasali o ih code prensili. Cambiavano sesso in media una volta ogni otto anni, il periodo più lungo dell’intero sistema solare. Il rapporto fra chirurgia di mantenimento e chirurgia estetica era di nove a uno. La maggior parte dei Lunari che volevano cambiare faccia lo facevano a casa, come hobby.

Plutone era all’altra estremità dello spettro. Lilo lo trovava volgare. Era un disgusto radicato che non riusciva a eliminare razionalmente. I Plutoniani erano pavoni. Indossavano il loro status sociale sulle loro pelli.

Lilo e Vaffa avanzavano in un labirinto di cartelli pubblicitari galleggianti, fatti di fumo e di ologrammi, che seguivano il possibile cliente sottoponendolo a trucchi prospettici da mozzare il fiato e trasmettendogli sempre direttamente nell’orecchio interno, per non violare le leggi sull’inquinamento acustico.

Riuscirono a uscire dal flusso principale e a entrare nell’oasi verde del parco. Il tronco di un albero fornì sedili intagliati che spuntavano direttamente dalla corteccia. Lilo alzò gli occhi e calcolò che le ci sarebbero voluti cinque minuti solo per girare intorno all’albero.

Era come essere nell’occhio di un ciclone. Le pubblicità olografiche si dirigevano verso di loro, ma venivano arrestate da un muro invisibile.

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