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Era Javelin, con il braccio alzato. Quando lo abbassava su un fianco, sembrava un grosso temperino.

Non si era semplicemente liberata del braccio destro e della gamba sinistra. Per gli spaziali era una cosa comune togliersi due arti, di solito le gambe. Javelin aveva raggiunto il culmine estetico della magrezza. La cassa toracica, la spalla destra e il fianco sinistro erano stati sostituiti da strutture plastiche. Si era liberata del rene sinistro, del polmone destro e di gran parte dell’intestino. Si era fatta ricostruire il gomito e il ginocchio con giunture a cuscinetto.

Era sinuosa come un serpente. Ciò che restava di lei poteva passare attraverso un foro di venti centimetri di diametro.

«Fare cosa?» chiese innocentemente Javelin.

«…quello. Quello che ha fatto. Non mi piacciono le persone che mi vengono vicino così velocemente.»

«Lo terrò presente. Adesso volete darmi una mano?»

Trasportarono i mobili sullo scooter. Avrebbero potuto essere più rapidi, ma erano tutti e tre affascinati dai movimenti di Javelin. Con una mano afferrava una maniglia accanto alla camera stagna, si allungava con la gamba e prendeva un mobile che tirava, piegandosi come un’anguilla, per farlo passare dal portello.

«Da questa parte,» disse quando ebbero finito. La seguirono al di là della porta, muovendosi tutti goffamente in assenza di gravità. C’era un lungo corridoio, con due pareti rivestite di tappeti e due di pannelli di quercia; questi ultimi erano adorni di ringhiere d’ottone.

«Qui c’è l’equipaggiamento vitale,» spiegò, indicando le pareti. «Le cabine sono davanti.» Vi si avviò, tirandosi con le mani (il che, nel suo caso, significava afferrare la ringhiera e compiere un arco con il corpo finché la mano che aveva in fondo alla caviglia non faceva presa). Dopo tre di quei movimenti era già al centro del corridoio, a gamba in avanti, e girava verso di loro con un ampio sorriso. Arrivò in fondo, acquistò movimento con la gamba e scomparve dietro l’angolo.

«Che altro inventerà la scienza?» esclamò Cathay.

«Non la disprezzare,» disse Lilo. «Sembra che funzioni piuttosto bene. Mi fa quasi sentire… superata.»

«Sì. Ma la vorrei vedere in un campo gravitazionale.»

«Immagino che non scenda mai. Mai.»

Javelin li aspettava davanti alla prima di due camere stagne. Li fece passare, illustrando le procedure per conservare l’aria della nave. Si aspettava che la seguissero senza fare sciocchezze. Quindi arrivarono alle cabine.

«Mi scuso per le dimensioni,» disse Javelin, aprendo le porte di due piccole stanze. «Questa non è la Queen Mary. Ho dovuto persino spostare la mia collezione di francobolli. Due di voi dovranno stare insieme, a meno che uno non preferisca il divano del solarium. Avanti, lasciate qui i bagagli e seguitemi.»

Lilo era attonita. Non sapeva fino a che punto Javelin stesse fingendo, se davvero le dispiacesse che ci fossero solo due «stanze per gli ospiti». Le cabine erano piccole, ma lussuosamente ammobiliate, rivestite e fornite di tappeti, come tutto il resto che aveva visto. Oltrepassarono altre due porte, quella di un’officina e quella di un laboratorio medico. Lilo riuscì a lanciarvi solo un’occhiata.

Il solarium occupava la maggior parte della zona abitata. Javelin li fece entrare e continuò ad andare avanti.

«Torno subito,» disse. «Accomodatevi. I bulbi di caffè sono lì, le bevande nelle bottiglie contro quella parete.» Sfrecciò attraverso un piccolo foro nella parte anteriore della stanza.

«È un posto folle,» esclamò Cathay. «Assolutamente folle.»

Lilo fu d’accordo con lui. Era stata in navi di tutti i tipi, ma non aveva mai visto niente di simile alla Cavorite.

«Che stile sarebbe?» chiese. «Primo Vittoriano? Tardo Capitano Nemo?» Ma Cathay non sapeva cosa rispondere, e Javelin se n’era andata.

Il solarium era grosso modo lungo dieci metri e largo quattro. A differenza del resto della nave, aveva un pavimento ben definito, una cosa senza senso secondo Lilo. Era molto più economico agire in caduta libera. Non solo, ma il pavimento era parallelo all’asse di spinta. Con il motore in funzione la stanza sarebbe stata su un fianco. Il basso non sarebbe mai stato in direzione del pavimento. Fu Vaffa a notarlo.

«Be’, a pensarci, nei suoi viaggi il motore è in funzione solo per pochissimo tempo…» Ma continuava a non avere sonso.

Il soffitto era ricurvo e seguiva la forma cilindrica dello scafo. Dodici grandi pannelli di vetro, sei per lato della stanza, si curvavano in alto per incontrarsi con un’elaborata trave di legno che percorreva la stanza nel senso della lunghezza. Era chiaro perché la chiamava solarium.

La stanza era adorna di piante, rampicanti e fiori. C’era un organo a canne con due tastiere su un lato e un acquario toroidale che girava lentamente sull’altro; piccoli pesci angelo boccheggiarono a Lilo quando avvicinò la faccia al loro mondo ruotante. Nel mezzo c’erano poltrone e divani rivestiti di velluto lussuoso, legni intagliati e molte decorazioni di ottone. Lilo si sentì oppressa dai particolari; tutto era infestato da curve.

Lilo infilò la testa nel foro attraverso il quale era scomparsa Javelin ed ebbe una sorpresa. Quella stanza era il centro di controllo della nave. Anch’essa era molto diversa dal solito, con gli strumenti di ottone, la mancanza di quadranti digitali e molti congegni che sembravano controlli manuali. Accanto allo stretto sedile di pilotaggio c’era una lunga leva sovrastata da un pomo di cristallo sul quale spiccavano le scritte STOP e VIA. Ma la vera sorpresa consisteva nel fatto che la stanza era vuota. Poiché al di là del muso della nave non c’era che lo spazio, a Lilo il fatto parve strano.

Si tirò indietro in tempo per vedere Javelin che entrava nel solarium dal corridoio di poppa. Dunque aveva le sue tecniche per spostarsi da una parte all’altra.

«È una nave sorprendente,» le disse Cathay.

«Crede? Grazie. A me piace. È logico, sono quasi trecento anni che ci abito. Il disegno — dell’esterno, voglio dire — l’ho ripreso dalla copertina di una vecchia rivista. Pre-Invasione. In realtà addirittura pre-spaziale.»

«È assurdo,» disse Vaffa, in tono deciso.

«Io penso di no. È chiaro che l’artista autore del disegno non sapeva niente di astronavi. Lui cercava di vendere riviste, così lo fece sexy anziché razionale. Mi è piaciuto.»

«Ma l’eccesso di peso…» obiettò Lilo, perplessa. «La forma non si adatta alla funzione. Non si perde in efficienza?»

«È curioso che dica questo. È in gran parte vero, ma non ha nessun senso poetico? È dal tempo della prima colonia lunare che combatto contro gli ingegneri. Siamo diventati una razza di ingegneri. Ciò che sembra non riusciamo a capire è che dopo il tempo delle ferrovie, viene quello delle belle ferrovie. Il livello artistico è progredito abbastanza, possiamo permetterci di perdere qualcosa in efficienza. Ma le navi per lo spazio profondo continuano ad assomigliare a un attaccapanni che fotte un albero di Natale.»

«Come?»

«Che cop. Scusate, era un termine arcaico. Anzi, tutti i concetti di questa metafora sono arcaici. Ma la Cavorite è meno inefficiente di quanto pensiate. Una volta presa la decisione stravagante — andare in giro nello spazio da sola, con una nave cinque volte più grande di quanto avrei avuto bisogno per lo stretto necessario — tutto il resto è venuto praticamente gratis. Un po’ di metallo leggero per il falso rivestimento esterno. Mobili che sembrano massicci ma in realtà non lo sono; il legno è un’impiallacciatura sottile sopra una normale struttura di schiuma. L’organo si richiude e diventa l’entrata e la biblioteca del computer, che non si vede. L’acquario fa parte del sistema di riciclaggio, e se i pesci stanno bene, sto bene anch’io. Vedrete, funziona.»