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«Ma trasmetteremmo davvero?» Il tormento di Cathay aumentava. Sarebbero state due lunghe ore.

Lilo non disse niente. Adesso la situazione era veramente al di fuori del loro controllo; lo era da quando la Vendetta era precipitata. Se non avessero ricevuto qualche conferma da Niobe entro due ore, avrebbe significato che su Poseidone stavano succedendo cose tremende, spaventose, impensabili.

A quel punto avrebbero senz’altro trasmesso…

Tweed era una figura popolare nelle strade di King City e questo gli era sempre piaciuto. La maggior parte dei suoi ex elettori erano contenti di vederlo camminare pesantemente in Clarice Boulevard. Talvolta andava in giro senza una meta e con l’espressione cordiale, avvicinandosi alla gente; aveva un sorriso e una pacca sulle spalle per tutti.

A volte, però, era necessario tenere a distanza l’affetto della gente. Si doveva sì familiarizzare col popolo per continuare a vincere le elezioni, ma c’erano anche occasioni in cui era indispensabile potersi spostare liberamente, senza essere assaliti dai fans. Il cappello era il segnale: se lo teneva in mano erano liberi di parlare con lui, se lo indossava, voleva dire che era impegnato negli affari pubblici.

Col cappello saldamente piantato in testa, il Gran Capo Tweed marciava in mezzo al corridoio, implacabile come un rinoceronte, sbuffando nuvole azzurre di fumo dal sigaro.

Voltava gli angoli con la grazia pesante di un rimorchiatore, addentrandosi sempre di più nelle zone meno frequentate della città. In fondo a un corridoio deserto c’era una porta anonima. Si aprì riconoscendo l’impronta della sua palma; lui entrò in una piccola stanza e si richiuse la porta alle spalle. Schiacciò un pulsante e la stanza cominciò lentamente a scendere.

Si levò la giacca nera e grigia, i pantaloni larghi, le scarpe di cuoio, le ghette bianche. In pochi secondi si ritrovò nudo davanti a un mucchio di vestiti. Senza scarpe era più basso di nove centimetri, ma era sempre un uomo alto.

Si fece qualcosa alla faccia e le guance cadenti caddero ancora di più, fino a staccarsi. Le prese in mano. Al tatto erano calde, di una plastica a metà fra la materia viva e quella morta. Lasciò cadere le due masse tremolanti sulla pila di vestiti, sulla tuba che aveva indossato tutti i giorni per cinquant’anni. Il cappello si ripiegò su se stesso.

Rimase per un attimo a guardare il mucchio di vestiti e cominciò a tremare.

«No,» disse. «No, questa non è la fine. È solo una battuta d’arresto.» Si appoggiò a una parete e aspettò che quella specie di collasso gli passasse. Con la faccia sepolta fra le mani si tolse altri strati di plasticarne.

Allorché finalmente sollevò lo sguardo era una persona diversa. Aveva perduto trent’anni di età apparente, e anche la sottile rete di rughe e di sporgenze che aveva reso la sua faccia quella di un essere umano maschio. Adesso era androgino; la sua grossa pancia non poteva nascondere il fatto che non aveva organi sessuali. Le due protuberanze del petto potevano appartenere tanto a una donna quanto a un uomo molto grasso.

Si raddrizzò. Con un rumore di qualcosa di viscido venticinque chili di plasticarne gommosa gli caddero dalla pancia, dalle braccia, dalle gambe, dal sedere. I seni rimasero; sporgevano sopra uno stomaco piatto che non vedeva da cinquanta anni.

Adesso Tweed sembrava una femmina; ma un esame attento delle labbra nascoste sotto il triangolo dei peli pubici non avrebbe rivelato nessuna apertura vaginale. Nessun ormone percorreva il corpo di Tweed, niente che potesse distoglierlo dal suo scopo. Aveva deciso di essere neutrale molto tempo prima e non se ne era mai pentito. Adesso quel fatto l’avrebbe aiutato a salvarsi la vita. Di solito il primo passo nell’assunzione di una nuova identità comportava un intervento di chirurgia plastica radicale. Da solo, non sarebbe mai bastato a risolvere il problema, ma era un primo passo essenziale. Lui l’aveva appena compiuto in tempo record, come aveva progettato tanto tempo prima, se mai fosse dovuto arrivare a tanto.

«Arrivare a tanto…» borbottò. Di nuovo si sentì mancare. Barcollò e quasi cadde sul pavimento scivoloso. La plasticarne si era dissolta, come pure i vestiti. L’acqua e la poltiglia grigiastra che erano rimaste venivano risucchiate in un condotto del pavimento.

Ripensò agli anni successivi ai primi barlumi della visione, rivide il futuro di una Terra liberata. Sapeva che c’era chi lo considerava un opportunista, chi pensava che stesse semplicemente sfruttando un movimento di opinione che sulla Luna era cresciuto per un secolo. Invece era sincero.

Anzi, Tweed era stato talmente sincero da prendere il suo unico figlio ed educarlo perché diventasse un assassino, un esecutore di ordini, di qualunque ordine. Prima di farlo aveva studiato libri antichi per un anno, ed era riuscito a tirar fuori un soldato. I metodi dei marines degli Stati Uniti e dell’Armata Rossa, uniti a una terapia farmacologica e alla psicologia comportamentale, avevano funzionato in modo eccellente. Vaffa non l’aveva mai deluso, a parte la sensazione di tristezza derivante dal fatto che lui e i suoi fratelli e sorelle clonati costituivano una compagnia decisamente noiosa.

Sarebbe stato uno scandalo, senza dubbio. Anche con la moratoria di un mese, le cose sarebbero cominciate a saltare fuori non appena fosse stata chiara la scomparsa di Tweed. Dapprima l’avrebbero cercato, i programmi di localizzazione automatica si sarebbero interessati a lui; in seguito, iniziate le domande, le cose sarebbero cominciate a venire a galla. Vaffa sarebbe stata la prima, ma ce ne sarebbero state altre. Sulla Luna c’erano sempre due Vaffa, e lui non poteva farci niente.

Adesso si trovava di fronte al problema quasi insolubile di ridiventare un cittadino con il diritto alla vita, registrato nelle memorie dei computer. Non poteva più essere il Gran Capo Tweed; doveva insinuarsi fra le pieghe dei circuiti integrati, proprio il compito che aveva assegnato a una dozzina di criminali in alternativa al fatto di lavorare per lui. Non era impossibile — membri del partito occupavano posizioni chiave in molti dei computer più importanti — ma ci sarebbe voluto del tempo.

«È solo una battuta d’arresto,» si ripeté Tweed.

Ma doveva proprio esserlo? La faccia di lui/lei si corrugò mentre Tweed riesaminava i fatti. C’era ancora tempo per annullare gli ordini impartiti a Vaffa, ma era agli sgoccioli. La faccia si contorse e lui/lei sbatté un pugno sulla parete. Lilo!

Tweed aveva sempre saputo, dentro di sé, che con i rischi che lui/lei correva era inevitabile che un giorno qualcuno fuggisse. Poi, qualche mese prima, la chiamata da Plutone. Lilo che parlava attraverso Vaffa e gli diceva cosa doveva fare. L’aveva molto disturbato, ma in effetti non aveva avuto scelta. E adesso questo colpo finale, e di nuovo da parte di Lilo. Ma quale? L’insegnante, Cathay, dopo essersi impadronito del rimorchiatore, ne aveva scaricato il pilota vicino a Poseidone. L’uomo aveva detto che Cathay era solo, che Lilo era caduta dentro al buco nero o su Giove. Come aveva fatto a tornare?

Tweed si ricordò allora che Lilo aveva una base sugli Anelli. Doveva essere quella. L’altra era morta. Il pensiero le diede una soddisfazione crudele. Aveva il comunicatore in mano, pronto a metterla in contatto col ripetitore. Poteva dire a Vaffa di ucciderli tutti. Si arrestò col pollice sul pulsante.

Due ore, il tempo che gli sarebbe rimasto se avesse dato quell’ordine. In due ore Lilo avrebbe raccontato tutto e tutti i poliziotti del sistema solare avrebbero dato la caccia a lui. Ce l’avrebbe fatta? Aveva risorse che Lilo non sospettava nemmeno; già il cambiamento di sesso avrebbe tenuto le autorità su una falsa pista per almeno tre o quattro ore.

Tutto questo, però, presupponeva che nessuno la stesse ancora cercando. Se avesse dato l’ordine adesso, la caccia sarebbe iniziata due ore dopo. E le si sarebbero letteralmente messi alle calcagna. Passò l’unghia del pollice sul pulsante del trasmettitore.