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Continuavamo a rimetterci insieme soprattutto per le mie necessità sessuali. Per me la mano è sempre stata un partner sessuale insoddisfacente. Non sono mai riuscita a rimanere a lungo arrabbiata con un amante; cominciavo ad aver bisogno di lui, Javelin non costituiva un’alternativa. Una volta ebbi un cop con lei; il che mi sorprese molto, perché avevo pensato che fosse praticamente neutra. Il modo in cui aveva risolto il problema degli organi femminili senza un bacino in cui metterli era ingegnoso, funzionale e affascinante, ma in fondo deludente. Era un’amante mediocre, troppo egocentrica per preoccuparsi di soddisfarmi.

Finii col resistere due settimane più di Cathay. Javelin parve sollevata nel farmi l’iniezione che mi avrebbe fatto dormire per otto anni.

Erano tre settimane che deceleravano.

Javelin aveva avuto ragione; lì c’era qualcosa. Sullo schermo radar appariva una forma delle dimensioni di un grosso asteroide. Era ancora impossibile osservarla direttamente, poiché la luce del getto della nave interferiva con il telescopio. Javelin si era prudentemente diretta verso un punto a cento chilometri di distanza dall’oggetto.

Ma nessuno l’aveva ancora vista, Javelin. Erano quattro settimane che Cathay, Lilo e Vaffa erano svegli e facevano quotidianamente esercizi per ritornare in forma dopo il lungo sonno; invece Javelin era rimasta nella propria stanza. Potevano parlarle, ma solo attraverso i circuiti interni. Lilo pensava che adesso la donna si rendesse conto ancor meglio della loro presenza sulla nave, e che ne fosse sempre più contrariata.

Finalmente comparve, dopo aver tagliato una porta dall’interno della stanza. Adesso aveva due braccia e due gambe, e non poteva più passare attraverso la piccola apertura di cui si era servita. Non poteva aver eseguito da sola quell’intervento chirurgico; Lilo immaginò che nella stanza avesse delle protesi meccaniche.

Sembrava che Javelin ne fosse imbarazzata. Lilo stava per fare un commento, ma al vedere la goffaggine con cui si muoveva in un’accelerazione di un gi — tendendo a dimenticarsi della gamba sinistra e del braccio destro — non disse nulla. Lilo era sicura che avesse modificato alcuni circuiti neurali. Era come se si fosse improvvisamente messa un paio di occhiali che invertissero tutto ciò che vedeva; avrebbe messo un po’ di tempo prima che il suo cervello accettasse i cambiamenti.

All’inizio Lilo si chiese perché Javelin l’avesse fatto. In passato aveva accettato i brevi periodi di immobilità ai quali era costretta quando la nave era sotto spinta; non duravano mai più di un mese ed erano un prezzo ben piccolo in cambio di dieci anni di movimenti comodi in caduta libera.

Ma ora ogni giorno li avvicinava all’avamposto degli Ophiuciti. Chissà cosa avrebbero trovato. Poteva essere qualsiasi cosa, dall’assenza di peso a una gravità di molti gi, e Javelin aveva pensato che fosse meglio essere pronti. Ecco spiegato quello che aveva fatto.

La stazione della Linea Calda era un toroide, una grossa ciambella scura con un diametro esterno di settanta chilometri che ruotava lentamente.

«Sembra un pneumatico,» osservò Cathay, guardando lo schermo del telescopio al di sopra della piccola spalla di Javelin. «Vedete come è schiacciato?»

«Così può avere una maggiore superficie piana all’interno,» spiegò Javelin. «Schiacciato sul fondo e con un tetto arcuato sopra.» Azionò alcuni interruttori sulla consolle. «All’interno hanno una gravità del 75%. Sapete, è piuttosto grande per una rotazione di quel genere. E la densità ci ha ingannato. È soltanto due volte più denso dell’acqua. Non ci dev’essere molto metallo.»

Sul bordo interno della ruota si innalzava una torre. Alla base era massiccia, ma si restringeva rapidamente fino a diventare un ago. Al centro di rotazione c’era un nodulo. Javelin effettuò alcuni altri calcoli.

«Dietro dev’esserci qualcosa di pesante, proprio davanti alla base della torre,» disse. «Altrimenti la sua massa sbilancerebbe la rotazione.»

«Ed è lì che dobbiamo andare, vero?» chiese Cathay. «In cima alla torre?»

«Non so dove altro potremmo dirigerci,» rispose Javelin. «Il resto si muove troppo velocemente. È meglio che vi leghiate alle poltrone. Dovrò compiere alcune manovre.»

«Non dovremmo prima cercare di metterci in contatto con loro?» domandò Lilo. «Sapranno quali sono le nostre frequenze. Immagino che siano secoli che ci ascoltano.»

«Hai ragione. Ma cosa dovremmo dirgli?» Dacché Lilo la conosceva, era la prima volta che Javelin sembrava incerta. Si guardarono l’un l’altro, e nessuno si mostrava particolarmente impaziente di effettuare il primo contatto. Javelin girò le manopole del proprio schermo e ingrandì l’immagine del modulo di attracco al centro della ruota. Avevano tutti notato una debole luce su un lato; Javelin la mise a fuoco.

Per un po’ nessuno disse niente. In realtà la luce era composta da numerose luci e la cosa cui assomigliava di più era un’insegna al neon. C’era scritta una parola: BENVENUTI.

«Vi stavamo aspettando,» disse una voce alla radio. «Se vi avvicinate a cinquecento metri vi lanciamo un cavo. Diciamo fra una ventina di minuti?»

21

Come posso riassumere la nostra vita su Poseidone?

I notiziari che riuscimmo a ricevere i primi giorni ci chiamavano «la Luna fuggitiva». Da Mercurio a Plutone, c’era una grande costernazione. La partenza di Poseidone veniva considerata foriera di eventi disastrosi da parte degli Invasori. Tu proposto di chiamare alle armi tutti gli esseri umani del sistema solare per prepararsi alla guerra imminente.

Naturalmente la guerra non ci fu, e a poco a poco l’agitazione si spense. Molto tempo dopo sentimmo qualcuno osservare che forse Poseidone era stato spostato per mezzo di tecniche conosciute anche agli uomini, e che potevano essere stati dei fuorilegge umani a farlo. L’idea non parve riscuotere molto successo, e del resto eravamo già troppo lontani e ci muovevamo troppo rapidamente perché potessero farci qualcosa.

Lavorammo freneticamente per un anno. L’impatto della Vendetta aveva provocato molti danni alle gallerie e alle stanze. Un sovraccarico di energia aveva fatto saltare il sistema di riscaldamento che teneva in vita le coltivazioni idroponiche. Tutte le piante morirono. Per un certo tempo vivemmo col cibo di emergenza, al buio. Non c’era aria sufficiente per pressurizzare i corridoi molti dei quali avrebbero avuto delle grosse perdite se l’avessimo fatto — così continuammo a vivere dentro le nostre tute imponendoci uno stretto razionamento dell’ossigeno.

Cathay e io non avevamo avuto modo di sapere se l’impatto della Vendetta avesse provocato danni irreparabili a qualche impianto vitale. Vejay era certo, diceva Cathay, che sul planetoide ci fosse già tutto il necessario per renderlo autosufficiente. Alla fine dovemmo rischiare con le vite di tutti coloro che erano su Poseidone.

Nel primo momento di entusiasmo dopo la vittoria, tutti furono contenti di ciò che avevamo fatto. Cathay fu senz’altro nominato primo presidente. Anch’io venivo ammirata. Ma non durò a lungo. Dopo sei mesi Cathay non ricopriva più quella carica ed evitavamo tutti e due di guardare in faccia le persone che incontravamo nei corridoi bui e privi d’aria.

Ma andò bene. Per molti anni Tweed aveva inviato attrezzature per rendere la base meno legata ai rifornimenti inviati con l’astronave. L’aspetto più rischioso della sua operazione era sempre stato mandare le astronavi su Giove, e meno ne mandava più era contento. Una a una, le necessità di Poseidone erano state soddisfatte da piccoli macchinari, per lo più azionati a mano. L’energia c’era, più di quanta le macchine potessero mai utilizzarne. Le materie prime potevano essere estratte o trasformate grazie a quell’illimitata fonte di energia. C’erano macchine per fabbricare lampadine, circuiti integrati e pompe. C’erano sempre i macchinari già utilizzati per costruire la base e che potevano essere impiegati per sgombrare i detriti o scavare nuove gallerie. C’erano le attrezzature per ricostruire i pezzi che si consumavano.