«Sì, ma…»
«Il sensore di questa camera stagna è stato staccato. Il computer non saprà che è in funzione. Prendi questi e mettiteli.» Le passò un paio di grossi stivali flessibili.
«Aspetta un momento. Non posso.»
«Devi farlo.»
«Non posso! State cercando di uccidermi! Non avrei mai dovuto ascoltarvi. Fammi uscire!» Stava per essere vinta dal panico. Come tutti i Lunari, Lilo aveva una tremenda paura del vuoto. Era il nemico che combatteva dal giorno della nascita, spaventoso come lo era stato l’inferno per gli esseri umani precedenti. Si sentiva male fisicamente.
«Mettiteli,» disse Vaffa con calma. «Ne avrai bisogno per proteggerti i piedi.»
«Cosa… cosa devo fare?»
«Se fai in fretta, resterai nel vuoto solo cinque secondi. Vicino alla porta c’è un cingolato, a due metri di distanza, al massimo.»
«Che ore sono là fuori?»
«Siamo nell’ombra.»
Si sentì nuovamente prendere dal panico. «No. No, è impossibile.» Voleva aggiungere altre cose, ma lui le toccò la spalla e la tenne stretta per un momento.
«Se dovrò stordirti e trascinarti, ci vorrà molto di più.»
Lei capì che diceva sul serio. Vaffa fece un leggero sorriso nel vedere che Lilo si rendeva conto che lui era troppo grande per lottarci contro. Così aveva un solo modo per uscire dalla camera stagna. Si infilò gli stivali e si mise davanti alla porta. Vaffa aprì le serrature. La porta rimase ermeticamente chiusa, trattenuta da quattordicimila chili di pressione.
«Quando?» domandò lei.
«Il mezzo cingolato non deve fermarsi. La guardia sulla torretta deve essere distratta al momento giusto, perché non ci fidiamo di lei. Il veicolo sarà accessibile per dieci secondi, e dovrebbe arrivare fra un minuto.» Alzò gli occhi dall’orologio e sorrise. «Se tutto continua ad andare secondo i piani.» Lilo pensò che era la prima volta che aveva detto qualcosa che non gli fosse stato ordinato di dire. Uscì dalla camera stagna e chiuse la porta interna.
All’improvviso giunse il momento. Sentì un grido che conosceva bene, ma tutte le altre volte che l’aveva udito aveva avuto indosso una tuta. Era la valvola di svuotamento rapido. Stranamente non provò niente. Ruttava in continuazione. Il suono si spense in pochi secondi. Spalancò la porta e corse nel silenzio. C’era una forma scura che si stava muovendo, una mano che si protese per afferrarla e che la tirò dentro il veicolo. Lo sportello si chiuse, e un grido attraversò l’aria che entrava a riempire la cabina sigillata. Lilo cominciò d’improvviso a rabbrividire. «Ce l’ho fatta,» gridò roca, e svenne.
Una donna era china su di lei.
«Non ti muovere, per favore.» Lilo si sentiva il braccio sinistro intorpidito. Abbassò gli occhi. Era stato reciso al gomito.
«Ci vorrà solo un attimo,» disse la donna. Aveva un caduceo tatuato fra i seni: un medico. Lilo voltò la testa sull’altro braccio e osservò.
«A cosa serve?» domandò.
«Lasceremo il veicolo a una stazione a circa cento chilometri da qui. Questo è per farti superare la dogana.» Prese un avambraccio da una cassetta vitale metallica e lo collegò a una borsa nera. Il pezzo di carne bianca acquistò colore e le dita si contrassero. Infilò il braccio di Lilo nella cassetta vitale.
«Sono Mari,» disse, con la voce che si alzò leggermente di tono sull’ultima sillaba. Sulla faccia aveva un accenno di sorriso.
«Lilo,» rispose lei, e si toccarono le palme, la destra di Lilo con la sinistra di Mari, poiché al momento Lilo era equipaggiata per salutare in modo corretto.
«Sarà pronto in un minuto,» disse Mari indicando il braccio. Prese una borsa che era su uno scaffale alle sue spalle. Dentro c’erano due tuniche color porpora scuro. Si alzò per infilarsene una dalla testa. «Tu puoi mettertela quando avrò finito.»
«Dove mi porti?»
«A vedere il Capo.» Dal tono della sua voce si capiva che Mari aveva un gran rispetto per il Capo. Quindi era una Terrestre Libera. Be’, certo non era una malattia. Lilo poteva anche tollerarli, tranne quando si trattava di un fanatico come Tweed che voleva portare tutta la razza alla distruzione.
Mari ricominciò a lavorare, facendo combaciare le. giunture del gomito, attaccando tendini, collegando nervi e vasi sanguigni. La pelle si cicatrizzò in cinque minuti e non rimase che una debole linea rossa a indicare dove il braccio era stato innestato. Staccò una spina dalla presa dietro la testa di Lilo e il braccio non fu più solo un peso morto. Era pieno di aghi e spilli, ed era freddo.
«Non è un gran lavoro,» disse Mari, rimettendo a posto gli attrezzi. «Ti servirà solo per un’ora o poco più, così non aveva senso perderci troppo tempo, no? Non dovrai usarlo molto.»
«Non ti preoccupare. Non sono mancina.» Strinse il pugno. Il braccio era più corto di circa cinque centimetri.
«Oh, davvero? Anche mia madre.»
«Questo di chi è?»
«Di una che dovrebbe essere sulla Luna. Di tanto in tanto facciamo passare il genotipo dalla dogana, in modo che il computer possa registrarlo… ma non credo che dovrei dirti queste cose.»
«Come vuoi.» Lilo si era immaginata che si trattasse di una cosa del genere.
«Non sembri molto contenta per essere una donna appena evasa da una prigione a prova di fuga,» disse Mari. Il suo sorriso era aumentato gradatamente; adesso era largo e amichevole. A Lilo venne di ricambiarlo.
«Immagino di non aver avuto il tempo di reagire. È tanto che vivo da condannata a morte.»
Mari le si fece più vicina. «Vuoi cop?»
«No, grazie. Credo di voler ricominciare con un uomo, dopo tanto tempo.»
«Certo.» Il medico rivolse la sua attenzione al paesaggio piatto e butterato e alle ombre oblique fuori dal finestrino.
Lilo cercò di rendersi pienamente conto del fatto che adesso aveva la possibilità di sopravvivere. La situazione non aveva ancora un significato preciso. Continuava a pensare all’altra donna, al clone, che sarebbe morta al posto suo. Cominciò a piangere, arrendendosi alle confuse emozioni che dovevano avere uno sbocco. Solo quando Mari decise che Lilo aveva sopportato abbastanza e le toccò una spalla, si rese conto di quanto avesse bisogno di una faccia amica, del contatto con un altro essere umano. Si calmò quasi immediatamente. Mari fece per ritirare il braccio, ma Lilo la fermò con un tocco.
«Fra quanto arriveremo?»
Mari diede un’occhiata al cronometro che aveva sull’unghia del pollice. «Fra circa due ore. Vuoi cop, adesso? È probabile che sia la cosa migliore. So qualcosa di quello che stai passando.»
«Ah, perché no?» Così lo fecero. Mari aveva avuto ragione; servì ad allentare la tensione. Mari era abile e gentile, una brava partner, tranne che per la tendenza a parlare. Baciava qualcosa — il naso, l’ombelico, il ginocchio, le labia — e poi voleva sapere chi era stato a prendere l’iniziativa. Di solito la risposta era «è andata così».
Mari segnò la maggior parte dei punti. Lilo era troppo distratta per stare molto attenta a quello che facevano la sua bocca e le sue dita. Sapeva di essere stata una cattiva partner, ma Mari disse che non importava, e sembrava sincera. Era un bel gesto, ma non tanto da meritare il secondo attacco di lacrime che provocò in Lilo. Quando si arrestò, capì che il medico l’aveva tirata fuori dall’abisso emotivo nel quale era vissuta durante l’ultimo anno come non sarebbe riuscito a farlo la consapevolezza intellettuale di una sospensione della sentenza.
Sarebbe rimasta viva!
Il veicolo si fermò a Herschel, uno dei piccoli formicai al limitare degli Altipiani Centrali. Mari entrò in una camera stagna e parcheggiò, poi andarono direttamente in città a prendere la metropolitana locale per Panavision. Lilo teneva gli occhi aperti, pronta a scappare se se ne fosse presentata l’occasione, ma vennero subito raggiunte da un uomo e da una donna. Ridevano e scherzavano con Mari, ma era chiaro che stavano in guardia. L’occasione ci sarebbe stata, ne era sicura. Era meglio aspettare finché non avesse conosciuto un po’ meglio la situazione.