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Ai loro occhi ero inferiore solo a una cosa. Al Delfino. Tutti i luoghi sacri di tutti i villaggi avevano una statua in legno di un grande pesce con le pinne della coda orizzontali e lo sfiatatoio.

Erano alcune settimane che si dirigeva verso nord. Già altre volte, nel suo lungo cammino, era andata a nord, ma era sempre stato per risalire un fiume alla ricerca di un guado. Una volta attraversato il fiume, ricominciava a scendere verso sud.

Apparentemente questa volta sarebbe stato diverso. A ovest non era riuscita a vedere nessuna terra e il colore dell’oceano sembrava diverso, più verde che blu. Il terreno era paludoso e lei compiva la maggior parte del viaggio su una canoa, spingendosi con un lungo bastone. Grossi rettili oziavano nel fango o le nuotavano pigramente accanto, però non aveva paura di loro.

Erano due anni che non vedeva la neve. Gli inverni erano miti, se addirittura si poteva dire che lì ci fosse un inverno. Aveva continuato ad avanzare per forza di abitudine e perché non sapeva decidere cosa fare della propria vita. Gli Invasori non l’avevano chiamata, non c’era stato nessun segno che le avesse rivelato perché era lì. Ma fermarsi avrebbe significato diventare parte di una tribù. Anche come dea, non credeva che sarebbe riuscita a sopportarlo.

Aveva fatto tutto il possibile, insegnando alle persone che aveva incontrato le nozioni che potevano essere loro utili. Ignorava se avessero continuato a prestar fede a ciò che lei aveva detto anche dopo che se ne era andata. E poi, non era nemmeno sicura che ne avrebbero tratto un vantaggio. Forse le soluzioni che avevano escogitato per venire a patti col proprio ambiente, per loro erano le migliori. Ma per lei, no. Le loro vite erano brevi, piene di dolori e di sofferenze. La sola cosa buona che possedessero era il senso della comunità, la sicurezza di essere circondati da amici, e sapeva che questo non l’avrebbe mai potuto condividere. Era diversa, e non poteva venire accettata in una tribù se non come una donna separata dagli altri.

Lilo non era più la donna che era stata un tempo. La sua pelle era marrone e indurita, i capelli erano stati scoloriti dal sole e dall’acqua salata. Non aveva specchi, ma sapeva di avere delle rughe fuori moda sulla fronte, intorno agli occhi e alla bocca. Dieci anni l’avevano fatta invecchiare da un clone dall’età di decantazione standard di diciannove anni apparenti a una donna di quaranta. Aveva una cicatrice bianca e raggrinzita che le andava dalla tempia destra alla mascella e un’altra sulla coscia sinistra. Le palme delle mani e le piante dei piedi erano indurite dai calli e i peli sui polpacci non erano più lisci e rigogliosi come un tempo.

Alla fine della quarta settimana di cammino verso nord, Lilo giunse alla conclusione di essere ormai alla fine della lunga penisola sudorientale del continente. I nativi la chiamavano Florda.

Decise di porre termine al proprio viaggio. Non c’era motivo di continuare lungo la costa del golfo, intorno alla curva del Messico, verso il Sudamerica. Ma non aveva il coraggio di fermarsi. Girò la barca e si spinse su per i calmi canali, tornando verso l’Atlantico.

Quando l’acqua tornò di nuovo azzurra, scelse un luogo vicino alle vecchie rovine di Miami e si costruì una capanna. Per la prima volta cominciò a coltivare un pezzo di terra (i semi glieli avevano dati gli indigeni), a fare esperimenti di ceramica e ad allevare polli e conigli.

Le tribù locali rispettavano il suo isolamento, a parte alcuni giorni sacri, allorché andavano a chiederle di celebrare riti religiosi che le erano oscuri ma che le sembravano soprattutto destinati a favorire la caccia. Accettava di pregare per loro, purché la lasciassero in pace per il resto dell’anno.

C’erano molte cose che la tenevano impegnata. Quando aveva bisogno di rilassarsi, usciva con la canoa e pescava. Le piaceva: poteva stare seduta a guardare l’acqua senza pensare a niente. Non provava più amarezza per ciò che le era successo. Se pensava a qualcosa, pensava a Makel.

Lilo si era tenuta lontana da tutti dal giorno in cui era morto. Nella sua vita, niente l’aveva colpita quanto la morte del ragazzo. Era stato un modo così sciocco, così inutile di morire. Da allora aveva visto la morte di molte persone, e sempre con la, stessa sensazione. Non siamo stati fatti per questo. La razza umana merita di meglio.

Lilo non era abituata a sentimenti ed emozioni così forti. Aveva combattuto contro se stessa per anni, ripetendosi che un essere umano era un animale come gli altri e poteva morire come tutti. Però non era soddisfatta. La logica non bastava. Non poteva tener conto di tutti gli aspetti. Cominciò a sentire che la terra su cui camminava sarebbe dovuta appartenere alla razza umana. Un tempo le era appartenuta. Forse coloro che erano vissuti prima dell’Invasione non avevano fatto un buon lavoro con lei, ma anche allora si erano sforzati. Ora tutti gli esseri umani sulla Terra erano nuovamente ridotti allo stato selvaggio. Le faceva male vedere una cosa del genere.

Andare sulla Terra aveva fatto diventare Lilo una Terrestre Libera.

Un giorno una grande forma scura apparve da sotto l’acqua, a meno di tre metri dalla sua barca. Ci fu un tremendo getto d’aria e una colonna di spruzzi si disperse tutt’intorno a lei.

Si alzò in piedi e la fissò. Era lunga almeno venti metri, tozza sul davanti.

Il Capodoglio.

Lilo gli lanciò contro il cesto dei pesci, che rimbalzò in acqua. La pelle luccicò, intatta. Lanciò il remo, una ciotola di creta in cui teneva l’esca, e poi tutto quello che riuscì a trovare sul fondo della barca.

Lentamente, il leviatano si girò. Apparvero due enormi pinne caudali che ondeggiarono per un attimo in aria prima di penetrare silenziosamente nell’acqua.

Lilo continuò a tremare per un’ora.

Il giorno dopo, forme gialle silenziose apparvero all’orizzonte. Lilo si alzò in piedi sulla spiaggia per guardarle, anche se le facevano male gli occhi. Erano ai limiti della visibilità, ma il problema non era questo. Erano forme. Erano tutte le forme contemporaneamente. E non si fermavano mai.

Le aveva già viste, sotto di sé, mentre precipitava nell’atmosfera gioviana, poco prima che i suoi sensi si dividessero e si trovasse sulla spiaggia — che scoprisse che era già sulla spiaggia, anche mentre cadeva verso Giove. Aveva rimosso quell’esperienza, ma adesso la ricordava: l’incredibile dissolvenza che aveva vissuto e che l’aveva lasciata sulla Terra.

Di nuovo non riuscì a controllare il tremito, ma questa volta era più per rabbia che per paura.

Abbatté un albero adatto e passò i giorni seduta sulla sabbia a guardare l’acqua e a lavorare il legno. Lo ridusse alla lunghezza di tre metri e in cima vi mise dell’acciaio che aveva faticosamente modellato da alcuni rottami. Quindi attese.

I getti comparvero un mattino presto. Lilo li osservò, tirando profondi respiri d’aria di mare finché le punte delle dita non cominciarono a pizzicarle. Tutti i nervi del corpo le vibravano, mentre si toglieva il corpetto di pelle e il perizoma e correva sulla sabbia verso la barca. Non aveva più paura di morire. Era il giorno giusto, e le balene aspettavano di assaggiare il suo arpione.