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«Sapevamo che sarebbe successo,» osservò Parameter, meravigliandosi che la notizia non la turbasse maggiormente.

«Così è stato.»

«Bene. E adesso dov’è?»

Il suo sguardo si spostò. Sembrò che Saturno ruotasse sotto di lei, finché non vide gli Anelli dall’alto. Ebbe l’impressione di essere sospesa sopra il circolo polare artico.

In fondo all’Anello, vicino al punto in cui l’ombra di Saturno lo intersecava, una piccola freccia verde si accendeva a intermittenza.

«Quelli siamo noi,» disse Solstizio. Procedendo lungo l’Anello, a circa sessanta gradi in senso rotatorio, apparve una freccia rosso scura. Il colore rivelava la natura della roccia. Era sul bordo dell’Anello Alfa, quello più esterno, dove per cinque anni non ci sarebbero state grosse perturbazioni.

Solstizio mostrò l’immagine più da vicino. Era la capsula vitale di Lilo come Parameter l’aveva vista l’ultima volta e che Solstizio aveva estratto dalle zone del loro cervello comune alle quali Parameter non poteva accedere senza ipnosi.

Era una roccia. Un po’ più grande della media, ma nell’insieme una roccia del tutto normale. Dentro c’erano un generatore nucleare, un elaboratore, un piccolo razzo, un sistema di sostenimento e Lilo. O qualcuno che sarebbe potuto diventare Lilo; un clone che, quando gli fossero stati immessi i ricordi registrati di Lilo, sarebbe diventato la Lilo di cinque anni prima.

«Sono davvero passati cinque anni?»

«E sessanta giorni e tre ore. Ora Corretta della Vecchia Terra.»

«Non sembra così tanto.» Esaminò di nuovo le due frecce. Erano molto distanti.

«Centoquarantunmilaottocentonovantacinque chilometri, metro più metro meno,» disse Solstizio.

«Be’, abbiamo fatto una promessa, no?»

«Aspettavo che tu lo dicessi.»

L’avevano incontrata la prima volta sei anni prima. Lilo aveva costruito la propria stazione di ricerca su Janus, sperando che il fatto che il satellite costituisse il confine fra società umana e società accoppiata implicasse una sorveglianza minore, un’applicazione meno rigorosa degli statuti genetici. Parameter/Solstizio l’avevano incontrata lì durante una delle loro rare visite e gli era immediatamente piaciuta. Era un fatto raro. Gli umani e le coppie di solito non fraternizzavano.

Su Janus erano rimasti vicino al suo piccolo laboratorio, e allorché erano stati pronti per partire, le avevano suggerito di spostare tutta la sua attività sugli Anelli. Lilo non aveva voluto andare così lontano, ma gli aveva chiesto di mettere una sua stazione automatica al limite degli Anelli. Aveva paura di essere presa. Loro avevano accettato di occuparsi del risveglio del clone, se mai ce ne fosse stato bisogno.

Adesso li aspettava un lungo viaggio. Era impossibile fare in fretta. Sebbene potessero procedere a cinquanta chilometri all’ora, dovevano fermarsi tutti i giorni a mangiare. Avrebbero impiegato quasi un anno per arrivare da Lilo.

«Be’, tutti i viaggi iniziano con il primo passo,» disse Solstizio. «Andiamo.»

4

Non vado quasi mai a visitare una disneyland. Secondo me il desiderio di lavorare la terra a mani nude e di mangiare cibi cresciuti dal suolo è innocuo, ma sciocco. Ci fa desiderare qualcosa che non potremo mai avere, qualcosa che è sempre sospesa nel cielo lunare. Porta a fantasie lunatiche, come quella che da tanto tempo ossessionava Tweed: la riconquista della Terra, la liberazione del tuo pianeta di origine dagli Invasori.

Sono cresciuta circondata dal metallo e non mi è mai sembrato che per questo mi mancasse qualcosa. Le storie sulle glorie della Vecchia Terra mi lasciano indifferente. Per raggiungere le nostre frontiere non dobbiamo cercare di ricatturare il passato, ma guardare in noi stessi. Ho tentato di farlo, e sono finita in prigione.

Tweed doveva aver regolato il termostato del suo paradiso privato sui venti gradi. Stavo soffocando. Porse le piante avevano bisogno dell’estate, ma io senz’altro no. E alcuni piccoli insetti odiosi si erano fatti strada fra i peli delle mie gambe. Natura. Mi tolsi l’ingombrante tunica e cercai di rinfrescarmi mentre Tweed meditava sul mio destino.

Lilo vide Tweed fare un cenno all’uomo al limitare del boschetto. Divenne tesa. Di che si trattava? Poteva decidere che non valeva la pena occuparsi di lei — ancora non sapeva che intenzioni avesse nei suoi confronti — e le cose potevano cominciare a succedere in fretta. Osservò attentamente Vaffa. Se le fossero saltati addosso, avrebbe venduta cara la pelle.

Ma Tweed attraversava velocemente il folto prato. Quando fu scomparso, Vaffa si rilassò un po’. Si sedette nell’erba e si mise a carezzare il serpente. Questa Vaffa era due metri e mezzo, non aveva seno e aveva pochissimo grasso addosso, ed era completamente bianca, come un osso. Un teschio: magra, parca di movimenti, possente e letale.

Qualcuno venne verso di loro correndo. Lilo si chiese come mai qualcuno corresse con quel caldo. Si trattava forse di una persona in difficoltà? Ma era solo allegria. Lilo vide prima il tatuaggio, poi la faccia.

«Salve, Mari.»

«Salve,» ansimava. «Non è meraviglioso? Essere qui, voglio dire.»

«Uh, huh.» Lilo colpì con uno schiaffo qualcosa che ronzava e ritrasse la mano rossa. Sanguisughe!

«Salve, Vaffa.» La donna salutò Mari con un cenno della testa. La dottoressa era madida di sudore e sembrava che le piacesse. Rimase ferma per un attimo, riacquistando fiato. «Devi venire con me,» disse.

«A fare che?»

«Devo registrarti. Ordine del Capo. Vieni, ci vuole un minuto.»

Lilo sapeva che ci sarebbe voluto un po’ di più, ma la seguì per un sentiero che si snodava fra gli alberi. Voltandosi, vide che Vaffa le stava seguendo: prestava però più attenzione al serpente che non a Lilo. Non era molto lusingante. Sarebbe stato piacevole considerarsi pericolosa, ma Vaffa non sembrava particolarmente impressionata. Be’, probabilmente era la cosa migliore. Forse un giorno avrebbe avuto una sorpresa.

Aveva pensato che sarebbe stata portata nella parte più normale della residenza di Tweed. Invece andarono in una radura in mezzo a un folto bosco. Vicino c’era una cascata. Mari aveva portato con sé la borsa; la posò per terra e fece un cenno a Lilo. Steso sull’erba c’era un sottile lenzuolo di plastica.

«Qui?» chiese Lilo. «Non hai bisogno di…» Mari stava già aprendo quello che sembrava un tronco d’albero. Dentro era metallico.

«Perche no? Non ti preoccupare, ti piacerà.»

Lilo doveva ammettere che l’ambiente era più riposante di quello di una normale sala operatoria. Forse l’avrebbe aiutata a superare il nervosismo.

La paura di Lilo nei confronti della registrazione della memoria era comune. Poteva ripetersi quante volte voleva che quello che temeva era semplicemente impossibile; non poteva risvegliarsi dopo il processo di registrazione e sentirsi dire che era morta e che erano passati diversi anni. A un clone poteva succedere, ma a lei no. La coscienza umana è lineare e la sua mente era attaccata al suo corpo, per sempre. Una registrazione della memoria faceva sì che una seconda personalità, esattamente come la sua, potesse venire immessa in un secondo corpo, anch’esso esattamente uguale al suo. Ma Lilo non avrebbe mai potuto partecipare alla vita che il clone avrebbe condotto, anche se aveva tutti i suoi ricordi fino al momento della registrazione.

Cercò di rilassarsi mentre Mari la collegava. Si sentì intorpidire mentre Mari girava i comandi della sua scatola nera. Da quel momento in poi le fu impossibile vedere quello che faceva il medico, però conosceva abbastanza bene il procedimento. Le scoperchiarono la testa. Quando le mani di Mari entrarono nel suo campo visivo si accorse che erano coperte di sangue.