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Nel cervello di Lilo c’erano piccoli canali metallici, installati allorché aveva tre anni. Le consentivano di essere collegata a un computer e servivano anche da condotti per il mezzo di registrazione: catene mononucleari di acido ferro-foto-nucleico. Mari avvolse un nastro di registrazione intorno alla fronte di Lilo. Appena esso entrava in funzione, il registratore avrebbe ridotto Lilo all’incoscienza per tre minuti.

In pratica era piuttosto semplice, in teoria impossibilmente complesso. Spesso Lilo si chiedeva se la razza umana sarebbe mai riuscita a mettere a punto quel metodo senza le informazioni ottenute attraverso la Linea Calda Ophiucus.

La memoria è un procedimento olografico: non viene immagazzinata in un solo punto, ma in tutto il cervello. Non può essere registrata o decifrata mediante un processo lineare, come un nastro magnetico che scorra in un registratore. Doveva essere afferrata tutta insieme, nella sua interezza, come con un’istantanea o un ologramma. Il FPNA lo rendeva possibile. Ogni linea — contenente miliardi di bit — interferiva con tutte le altre mentre il processo era in corso. A differenza di un ologramma visivo, nel quale ogni segmento della lastra fotografica presenta tutte le informazioni su tutta l’immagine, una linea isolata di FPNA era inutile. L’immagine aveva un significato solo se tutte le linee del fascio — quarantasei — si combinavano fra loro. La banda di registrazione faceva sì che in tutto il cervello venissero a crearsi campi magnetici che producevano un codice di permutazioni quasi infinite.

Lilo non si era mai preoccupata di sapere se il procedimento fosse effettivamente in grado di ritenere tutto. I concetti di anima, di karass, di karma o di atman non le dicevano molto. Conosceva persone che erano morte ed erano state riportate in vita grazie alla registrazione della memoria e alla clonazione, e non si notava nessuna differenza.

Mari azionò l’interruttore e l’ultima cosa che Lilo ricordò fu la sua faccia sorridente.

Quando si svegliò la faccia era sempre lì, sempre sorridente. Lilo rispose al sorriso, contenta che fosse finito. Accennò ad alzarsi.

«Ferma, non così veloce,» disse Mari, allegra. «Prima devo staccarti e richiuderti.»

C’era qualcosa di diverso. Guardò di nuovo e si rese conto che si trattava dello sfondo. Qualcosa dietro la faccia di Mari era cambiato.

Erano le foglie degli alberi. Prima erano verdi, adesso c’era un miscuglio di rossi, gialli e viola.

«Oh, Dio, no. No, questo… questo non mi piace. Non voglio!»

Mari le toccò delicatamente la fronte. «Non voglio essere costretta a spegnerti.»

Lilo si lasciò andare. A poco a poco si rese conto che al limite del suo campo visivo c’era un cerchio di facce, fra Mari e la volta degli alberi, che la fissavano. C’era Tweed, Vaffa, e… l’altro Vaffa. Uomo e donna, che la guardavano.

Mari terminò il proprio lavoro. «Lascia che ti aiuti,» disse. «Ne avrai bisogno.» Lilo si lasciò mettere a sedere e poi alzare in piedi. Rimase rigida, provando per un attimo le vertigini, ma riacquistando rapidamente il senso dell’equilibrio. Si abbandonò alle sensazioni, senza avere il coraggio di pensare: l’erba sotto i piedi, i capelli che le accarezzavano la faccia, la pelle fresca e il calore della schiena di Mari contro il braccio, il gioco dei muscoli nelle gambe e nei piedi. Mari le circondò la vita con un braccio e la fece camminare in cerchio, come un’ubriaca.

«Riacquisterai l’uso normale delle gambe in pochissimo tempo,» disse dolcemente. «Ti ho fatto fare esercizi durante tutto il processo di crescita, mentre eri nella vasca. Sei forte, solo che ancora non ci sei abituata. Pensi di riuscire a reggerti in piedi da sola?»

Lilo annuì, non avendo abbastanza fiducia in sé per parlare. Mari la lasciò andate e lei si trovò davanti a Tweed che aveva alcuni fogli in mano.

«Così sono morta,» disse. Lui guardò i fogli e spuntò qualcosa.

«Non avete niente da dirmi?»

Tweed non parlò, si limitò a guardare nuovamente i fogli e a farvi un altro segno. Il Vaffa uomo osservava le cime degli alberi e sorrideva. Era la prima volta che lo vedeva sorridere. La femmina si teneva la mano davanti alla bocca e Lilo capì che cercava di trattenersi dal ridere. Era lei che li divertiva? Che razza di gente era?

«Che diavolo sta succedendo? Me lo potreste dire, per favore?»

Tweed strappò un foglio e lo passò a Lilo. Lei lo guardò, guardò Tweed, poi dovette guardare di nuovo quello che temeva di aver visto.

«Così sono morta.»

«Non avete niente da dirmi?»

«Che diavolo sta succedendo? Me lo potreste dire, per favore?»

Le parole erano stampate e accanto a ogni frase c’era un grosso segno. Le vennero di nuovo le vertigini. Ci fu un’apparizione: al limite della radura, una grande alce, con corna di cristallo che riflettevano il sole in una luce azzurra. Un’allucinazione? Guardò da un’altra parte. Voleva andarsene da quel luogo folle.

«È meglio che ti sieda e ti riposi,» disse Mari, circondandola di nuovo con un braccio, mentre a Lilo tremavano le ginocchia. «Forse ti farebbe bene piangere.»

«No! Piangerò più tardi. Adesso voglio sapere cosa sta succedendo.»

«E lo saprai,» annuì Tweed. Fece un cenno e il Vaffa maschio gli aprì una sedia. Ci si sedette. «Mari, ti avevo detto di non intrometterti.»

«Mi dispiace, Capo,» rispose Mari, impotente. «È solo che non riesco… quando qualcuno è in difficoltà, io…»

«Non ti preoccupare. Non avrei dovuto farti venire qui. Comunque non ha importanza. Lilo, come hai già visto, non sei quella che pensavi di essere. Sei un clone. Forse sai cosa è successo alla Lilo originale. Ho motivo di credere che stesse tramando già prima che la facessi registrare. In ogni caso è entrata in società con me con… intenzioni che non erano esattamente le migliori. Sai di cosa sto parlando?»

«Sta dicendo che ho cercato di fuggire. E che non ce l’ho fatta.» Guardò i due Vaffa. Le loro espressioni erano impenetrabili.

«Esattamente. Ci pensavi fin dal momento in cui hai capito che non saresti stata giustiziata.»

«Immagino che non abbia senso non ammetterlo, no?»

«No, non ne ha.»

Ho paura, pensò, ma non lo disse. Poteva darsi che l’avesse scritto da qualche parte. Sentì qualcosa che le si accumulava dentro, qualcosa che doveva trovare uno sbocco. Ne fu contenta, anche se avrebbe significato la morte per lei. Gli avrebbe strappato la pelle dalla faccia, gli avrebbe scoperto le ossa e gliele avrebbe spezzate con i denti. Lo avrebbe ucciso. Guardò per terra, mentre dentro le cresceva la sete di sangue. Stava per scattare…

I suoi occhi si posarono su due piedi nudi. Risalirono lungo un paio di gambe, dei genitali senza peli e un petto piatto, fino a una testa calva. Le ginocchia erano piegate, le braccia leggermente allontanate dai fianchi. Le labbra erano aperte sui denti macchiati secondo la moda. Voleva che Lilo attaccasse. Vaffa si era spostata fra Lilo e Tweed addirittura prima che a Lilo fosse venuto in mente di aggredirlo. La rabbia si ridusse a un nodo secco allo stomaco. Vaffa si rilassò.

«Sapeva dove mettersi,» stava dicendo Tweed. «Lo capisci?»

«Sì, lo capisco.»

«Le tue azioni sono prevedibili, Lilo.»

«Capisco anche questo.»

«Ti piacerebbe sapere cosa ti è successo? Ti mancano quattro mesi.»

«Immagino che sia meglio che sappia.»

Ero stata sciocca. Adesso capivo quanto fosse stato ridicolmente facile fuggire.