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Come mi sembrava delizioso, adesso, quel tran tran quotidiano! Avevo avuto tutto quello che desideravo e non me n’ero mai accorto.

Nell’immenso andito della stazione gli inservienti erano indaffarati coi bagagli dei passeggeri, in arrivo o in partenza. È sempre eccitante assistere al traffico nella Union Station, pensando che da lì potreste andare in tutto il mondo… in tutta l’America, almeno. C’erano treni appena giunti da Los Angeles, Salt Lake City, New Orleans e Washington D.C. e partenze per Minneapolis, Detroit e Houston. C’erano vocianti facchini dal berretto rosso con i passeggeri affardellati che trottavano dietro i loro carretti, e coppie in luna di miele che scambiavano baci e abbracci coi loro parenti, e famiglie reduci dalle vacanze con le loro borse piene di costumi da bagno, conchiglie, buffi souvenirs, e abiti e cappelli dai colori vivaci. A parte qualche occasionale corsa in treno con Greta, e viaggi d’affari a Pittsburgh o a Milwaukee, io non mi muovevo spesso. Forse era per quello che la Union Station aveva per me un odore esotico. E un’atmosfera — non so dirlo meglio — così organizzata. Potevate regolare il vostro orologio sui treni: partivano allo scattare del secondo, si arrestavano alla banchina come fossero sincronizzati alle lancette dei grandi orologi scaglionati ovunque.

Fu per questa ragione che restai stupefatto quando vidi che sul cartellone degli arrivi, sotto Twentieth Century Limited, un inserviente stava appendendo un avviso che recava stampato «in ritardo».

Mi feci largo fra la folla per vedere se potevo scoprirne il motivo, ancora con la speranza che l’inserviente avesse fatto un errore e che Greta fosse lì ad aspettarmi. Non c’era. E nessuno seppe rispondere alle mie domande. Mi affrettai verso un’altra stewardess che stava uscendo in quel momento dagli spogliatoi riservati al personale femminile. Sapevo che aveva lavorato con Greta un paio di volte, anche se poi era stata assegnata al prestigioso Superchief di Los Angeles per anzianità di servizio. Mi fissò a occhi sbarrati. — Il Twentieth Century in ritardo? No, Nicky, devi sbagliarti. Non è mai in ritardo.

Andò a un telefono, parlò con qualcuno e quando tornò da me appariva preoccupata. — Strano — disse. — Sembra che l’abbiano fermato fuori stazione. Per prendere a bordo un nuovo conduttore.

— C’è qualcosa che non mi persuade — commentai. D’un tratto avevo la gola secca. Cosa poteva esser andato storto? Un guasto? Un conduttore che aveva avuto un attacco di cuore, o era impazzito, o… Non c’era limite alle disgrazie che potevano balenarmi alla mente.

Ma ero lontanissimo dall’immaginare quella giusta.

Per una ventina di minuti restai seduto lì ad aspettare che succedesse qualcosa, e quel che successe non fu per nulla soddisfacente. Si realizzò in tre atti. Il primo atto fu quando un fattorino arrivò di corsa e con l’aria agitatissima. — Roba da non credersi! — gridò a un collega, entrando negli spogliatoi. — Hanno fermato il treno fuori stazione. Hanno fatto scendere tutte le stewardess, il conduttore, gli inservienti, il macchinista, il fuochista… l’unico motivo per cui hanno lasciato proseguire me, credo, è perché sostitutivo un collega e non faccio parte dell’equipaggio regolare. Piazza pulita! E ho sentito uno di quei tipi parlare di una cospirazione…

Il secondo atto fu quando, ancora sbalordito, mi giunse all’orecchio la voce di qualcuno che domandava chi erano quei tipi. E a quel punto non fui molto sorpreso nel sentire la risposta che ebbe. — FBI!

E il terzo atto fu quando mi alzai in fretta, dirigendomi all’uscita, e due giovanotti in completo grigio mi si materializzarono accanto, uno per parte. Le mie braccia vennero attanagliate da mani esperte.

Sulla porta del locale Ufficio Dirigenti — Vietato l’ingresso verso cui venni dirottato c’era ad attendermi Nyla Christophe, con le mani unite dietro la schiena e un sorriso soddisfatto sul volto. Il sorriso del gatto che ha appena mangiato.

E ora le veniva portato l’ultimo boccone.

Ero stato un idiota a non capire quanto fosse semplice la soluzione del problema per l’Agente Capo Nyla Christophe. I testimoni oculari mi avevano fornito un alibi fastidioso? Nessuna difficoltà: bastava arrestare i testimoni. E un testimone che fosse chiuso in una cella dell’FBI non poteva più considerarsi — a tutti gli effetti — un testimone di niente. Così si poteva procedere con la necessaria semplicità verso la chiusura di un caso basato su ottime foto e ottime impronte digitali, spazzando via tutti i noiosi dettagli secondari. Nessun problema, dunque… per Nyla Christophe.

Ma per me, invece, problemi a valanghe. E il peggiore che mi fosse mai capitato cominciava proprio in quel momento.

Il pilota del lussuoso trimotore della Transcontinental Western Airlines, in arrivo a Chicago dal sud, chiamò il campo d’aviazione Meig per annunciare il suo atterraggio. La città era nascosta da una coltre di nuvole, ma questo non lo preoccupava. Chicago non aveva neppure uno di quei grattacieli alti un centinaio di piani, come New York. La città sorgeva su un terreno alluvionale, non già su un letto di roccia, il che rendeva impossibile costruire grattacieli forniti di solide fondamenta. Questo rendeva le cose più facili per i piloti dei grossi trimotori. … salvo che quella volta, perché rialzando gli occhi l’uomo si vide improvvisamente davanti un’altissima torre che non avrebbe dovuto esistere affatto. Con una disperata e azzardatissima manovra riuscì però a evitare la collisione.

Quando si volse a guardare indietro, il grattacielo era di nuovo scomparso. E tutti e trentotto i ricchi e avventurosi passeggeri, che avevano scelto le sette ore di aereo invece delle quindici ore di treno, stavano imprecando furiosamente contro di lui.

21 Agosto 1983
Ore 7,20 pomeridiane — Senatore Dominic DeSota

Mentre aspettavo che Nyla arrivasse dall’aereoporto, mi addormentai in poltrona. E quando infine giunse in albergo, suppongo che le fece comodo evitare di svegliarmi. Avrei dovuto aspettarmelo. Aveva sempre avuto il vezzo di mettersi a fare un po’ di esercizi appena ci incontravamo, a volte prima di disfare le valigie, o perfino ancor prima di andare in bagno. — Che hai fatto di bello alla Carnegie Hall? — si domandava da sola. E da sola si dava la risposta: — Esercizi, esercizi, esercizi! E sai bene che quando mi costringi a farne a meno, dopo è più dura per me, Dom caro. — Così quel che mi svegliò fu il suono del suo Guarnerius dalla stanza accanto: un pezzo di Bach per violino solista. Lo identificai subito. Questo non mi sarebbe stato facile fino a un anno prima, perché la musica classica è una delle cose per cui non si ha molto tempo nella carriera politica, ma avere una relazione sentimentale con Nyla Bowquist era stato educativo sotto non pochi aspetti. E quello era uno dei minori.

Mi alzai e andai in camera da letto. Era lì in piedi accanto al caminetto e mi volgeva le spalle, mentre l’archetto andava avanti e indietro sul prezioso violino e tutto il suo corpo ondeggiava a tempo con la musica. Mi accostai in punta di piedi, passai le mani sotto le sue braccia sollevate e le afferrai dolcemente i seni. Lei non perse battuta. Occhi socchiusi, archetto che danzava sulle corde, disse: — Dammi altri due minuti, tesoro.

— E cosa si suppone che io debba fare in questi due minuti? — chiesi.