Выбрать главу

Ebbe un gesto impaziente. — Mi chiami Jimmy. Il nome non importa. Quel che conta è: cosa stava facendo ai Laboratori Daley?

— Ah, Jimmy! — sospirai tristemente. Rimisi nel piatto i resti del sandwich. — Questa è una cosa stupida — dissi. — Torni dall’Agente Capo Christophe e le dica che lo scherzetto non ha funzionato.

Mi fissò in silenzio e con un lieve cipiglio intanto che la cameriera arrivava col suo sandwich di prosciutto e formaggio. Poi disse: — Non è uno scherzo.

— Invece non è nient’altro che uno scherzo, Jimmy. Io non mi sono mai avvicinato ai Laboratori Daley, e lei e Christophe lo sapete bene.

— Non mi prenda per il bavero — disse. — Loro hanno le sue foto.

— Sono malriuscite, o false.

— E le impronte digitali? Malriuscite anche quelle?

Strinsi i denti. — Qualunque prova abbiano per dimostrare che ho cercato di penetrare in quei laboratori sabato notte è un falso, per il semplice motivo che non ero là.

Cominciò a mangiare il sandwich, analizzandomi con occhi insospettiti. Io analizzai lui. Non solo era più giovane di me, ma anche più alto ed elegante. E gli piaceva vestire alla moda. Il completo bianco che aveva indossato in tribunale era un po’ troppo vistoso, mentre quello che gli vedevo adesso era probabilmente di taglio inglese. Non doveva averlo pagato meno di 75 dollari. E le sue scarpe non provenivano certo dalla vetrina di «All’Onestà, da Joe». D’un tratto disse: — Nyla è convinta che i testimoni a sostegno del suo alibi abbiano mentito.

Mordicchiai il rimasuglio del mio sandwich. Lo deposi di nuovo. — Come sa quello che pensa Nyla Christophe, se non è dell’FBI?

— Siamo amici — spiegò. — Ho un sacco di amici nella polizia… non solo all’FBI. Dovrebbe averlo capito.

— So quello che ha fatto — osservai. — Non so perché l’abbia fatto.

— Perché non dovrei fare un favore a qualcuno, se mi va? — disse. — Torniamo ai suoi testimoni. Hanno mentito?

— No! E anche se fosse, verrei a dirlo a lei? Ma dicevano la verità.

Terminò il suo sandwich in silenzio e senza smettere di studiarmi con gli occhi, come se un impercettibile mutamento della mia espressione avesse potuto fornirgli le risposte che voleva. Lasciai che se la prendesse con calma. Ingoiai l’ultimo boccone del sandwich, bevvi il caffè e feci cenno alla cameriera di portarmene un’altra tazzina. Lui alzò la sua per chiedere il bis, e quando la donna fu di nuovo fuori portata d’orecchio ammise: — Detto fra noi, sono propenso a credere che non abbiano mentito.

— Lieto di saperlo.

— Ah, non stia a fare tanto il duro con me, Dominic. È nei guai fino al collo, lo sa?

Non lo sapevo affatto. — La Christophe mi ha detto che potevo tornarmene alle mie faccende — obiettai.

— E perché non avrebbe dovuto? Tanto non potrebbe lasciare la città, neanche se ci provasse. Non ha ancora finito con lei.

— Perché no, maledizione?

— Perché — spiegò, — le foto e le impronte non possono mentire.

— Ma io in quel posto non c’ero!

— Giuro che mi sembra sincero. Anche i suoi testimoni, e questo è un boccone duro da mandar giù. Secondo me voialtri potreste perfino passare un test col lie-detector.

— E perché no? Non abbiamo detto una sola parola falsa.

— Oh, al diavolo, Dominic! — esplose. — Non si rende conto d’aver molto bisogno di aiuto?

— E lei si è ficcato in capo di aiutarmi?

— Io? No — disse. — Ma conosco qualcuno che può farlo. Paghi il conto, Dominic, e andiamo a fare una corsetta in auto.

Era pieno Agosto e il sole non tramontava fin verso le otto di sera, ma dovunque stessimo andando s’era già fatto buio molto prima che ci arrivassimo. Fin da quando Jimmy aveva girato a sud, fuori dalla periferia di Chicago, il traffico s’era fatto scarsissimo. Oltrepassammo miglia e miglia di campi coltivati a grano, dozzine di piccoli centri abitati, e ogni volta che chiesi al sedicente Jimmy quale fosse la nostra destinazione lui scosse la testa. — Meno ne sa — disse, — meno guai può dare a se stesso e ad altri.

— Cosa stiamo andando a fare, allora? Io non sono uno specialista delle ore piccole. Ho un lavoro, e ci si aspetta che di buon mattino…

— Quello che ha adesso — spiegò con pazienza, rallentando a un semaforo, — è un guaio con l’FBI. E se non riesce a venir fuori da questo, tutti gli altri le sembreranno roba da ridere.

— Ah, sicuro, Jimmy. Però…

— Però stia calmo e si rilassi — ordinò. — Siamo quasi arrivati. È appena fuori di questa città.

Quella «città», a dar retta al cartello stradale, era un posto chiamato Dixon, Illinois, popolazione 2250, riunioni del Rotary e Lion Club ogni giovedì e venerdì all’Holiday Inn. La Main Street ci condusse a una piazza dove un cannone da 75 mm della seconda guerra mondiale campeggiava in mezzo alle aiuole, e lì Jimmy sterzò con uno stridio di pneumatici in una strada privata.

A chi la strada appartenesse, non era possibile capirlo. Non c’era alcun cartello tipo «Benvenuti a Villa Pratinfiore» o «Attenti ai cani», niente che permettesse d’identificare il luogo né che facesse sentire minimamente benvenuto chi arrivava. Al contrario. Ciò che distingueva quella strada da qualsiasi altra era solo la cancellata che la sbarrava subito dietro la prima curva. Fuori dal cancello c’era un casotto di legno, davanti al quale una guardia in uniforme ci ordinò con un gesto di abbassare i fari.

— Documenti, prego — disse. Jimmy gli passò qualcosa dal finestrino. Non vidi che razza di tessera fosse, ma dovette sembrargli soddisfacente. O meglio, quasi soddisfacente. Ci ponderò sopra per un po’, mordicchiandosi un labbro, andò a un telefono e ne discusse con qualcun altro al capo opposto del filo, quindi apri il cancello e ci fece segno di passare.

Un quarto di miglio più avanti la strada si divise in due intorno a una fontana posta al centro di uno spazio circolare. Girammo intorno al prato e rallentammo sulla ghiaia di fronte alle massicce colonne bianche di una scalinata marmorea. Avevo già visto un posto simile: era lì che abitava Rossella O’Hara in Via col vento. E i servi in livrea sembravano usciti dallo stesso film. Un giovanotto di colore ci apri la portiera con un inchino, e portò via l’auto di Jimmy verso un’invisibile rimessa dietro un frutteto di meli in fiore. Comparve una negra grassa e anzianotta che ci scortò in casa. Non chiamò Jimmy per nome, e in quanto a me parve considerarmi invisibile. Non fece domande. Non volle rispondere a ciò che le venne chiesto. La lista di cose che non intendeva fare per noi sembrava piuttosto lunga. Ci guidò in silenzio attraverso un largo andito, da cui una scala coperta da una passatoia rossa s’incurvava verso il piano superiore, oltrepassammo un corridoio, una specie di soggiorno dove campeggiavano un enorme caminetto e alcune poltrone massicce, e finalmente aprì una porta a vetri per immetterci in quella che sembrava un incrocio fra una serra e una piscina coperta. Fuori faceva caldo. Lì dentro era due volte più caldo. Dovunque s’ergevano piante tropicali, alcune alte fino al soffitto a vetri, e non mancavano gli alberi coperti di rampicanti. L’aria era satura di profumi vegetali misti al sentore d’humus e foglie marce.

La vasca che ne occupava il centro era una piscina lunga e stretta, nella quale stava nuotando un uomo. Era anziano e, vidi, completamente nudo. La cosa non sembrava dargli alcun imbarazzo, anche perché era occupatissimo a gareggiare con se stesso. Toccò il fondo della piscina con una mano e grugnì: — Novantotto! — poi ripartì verso l’altra estremità battendo il crawl australiano o qualcosa di simile. — Novantanove! — E tornò indietro mettendocela tutta. Infilava le mani in acqua con aggraziata cautela, girava la testa bianca dalla parte opposta per espellere il fiato e i suoi piedi battevano otto volte per ogni bracciata. — Cento! — disse, e ansimando s’aggrappò al bordo della vasca. Un altro giovanotto di colore, serio e contegnoso, gli porse un largo asciugamano mentre si tirava a sedere sulle mattonelle. L’uomo si massaggiò la faccia, quindi ci elargì un sogghigno. — Salve, gentiluomini — disse.