Sbuchiamo in una piazza e ci fermiamo subito, perché vediamo un cannone. È sistemato dietro l’angolo, è tozzo, sembra quasi saldato all’asfalto: la lunga bocca da fuoco con la pesante maniglia del freno, l’ampio scudo ricoperto di disegni mimetici a zigzag, il grande affusto, le pesanti ruote gommate… Da questa posizione aveva sparato spesso, ma molto, molto tempo prima. I bossoli dei proiettili sparati sono sparsi intorno, completamente corrosi dall’ossido verde e rosso, i ganci dell’affusto hanno squarciato l’asfalto e affondano ora nell’erba fitta, e persino un alberello è riuscito a spuntare oltre la fiancata sinistra. La culatta arrugginita pende da una parte, l’alzo manca completamente, e dietro giacciono in disordine casse di munizioni putrefatte, semidistrutte, tutte vuote. Qui hanno sparato fino all’ultimo proiettile.
Guardo al di sopra dello scudo e vedo dove hanno sparato. Cioè, prima vedo un’enorme breccia ricoperta di edera, nella parete della casa di fronte, e solo dopo mi balza agli occhi un’incongruenza architettonica. Ai piedi della casa, proprio come un cavolo a merenda, sta un piccolo padiglione di un color giallo opaco, a un piano solo, con il tetto basso, e ora mi è chiaro che hanno sparato proprio contro di esso, mirando dritto, quasi con ostinazione, da una cinquantina di metri, e gli squarci nella parete della casa non sono altro che colpi a vuoto, sebbene, da quella distanza, mancare il colpo sembrasse impossibile. Del resto, i colpi a vuoto non sono poi molti, e ci si può solo meravigliare della solidità di quella squallida costruzione gialla che, nonostante i tanti colpi ricevuti, non è diventata un mucchietto di spazzatura.
Il padiglione è assolutamente fuori posto, e da principio mi sembra che siano stati i terribili colpi dei proiettili a spostarlo dal suo posto, a farlo cadere all’indietro, a trascinano per il marciapiede e quasi a piantarlo ad angolo Contro il muro della casa. Ma, chiaramente, non è andata così. I proiettili hanno provocato sulla facciata gialla dei fori dai bordi fusi e anneriti e sono esplosi all’interno, così che gli ampi battenti del grande ingresso si sono aperti verso l’esterno e, contorti, ora pendono appesi a fili invisibili. All’interno è ovviamente scoppiato un incendio, e tutto quello che c’era è bruciato, e le lingue delle fiamme hanno lasciato nere tracce sull’ingresso, di qua e di là dalla breccia. Ma il padiglione si trova proprio là, dove l’avevano messo fin dall’inizio degli architetti strampalati, ostruendo completamente il marciapiede e occupando parte della sede stradale, cosa che doveva indubbiamente disturbare il movimento dei trasporti.
Tutto questo è avvenuto molti, moltissimi anni fa, e ormai è scomparso da tempo l’odore degli incendi e degli spari, ma l’atmosfera di odio viscerale, di rabbia, di follia, che allora spingeva gli sconosciuti artiglieri si è stranamente conservata e opprime l’anima.
Ricomincio a dettare il rapporto e Ščekn, allontanatosi un po’, con il labbro sprezzantemente all’ingiù brontola a bella posta a voce alta, storcendo l’occhio giallo: «Uomini… Ci può forse essere dubbio… È chiaro, sono uomini… Ferro e fuoco, rovine, sempre lo stesso…». Evidentemente sente anche lui questa atmosfera e, probabilmente, in modo ancora più intenso di me. Inoltre gli vengono in mente le contrade natie, i boschi disseminati di tecniche assassine, le radure arse fino ad essere ridotte in cenere, dove sporgono mortali i tronchi degli alberi carbonizzati e radioattivi e la terra stessa è intrisa di odio, di paura e di morte…
In questa piazza non abbiamo più niente da fare. Si possono solo fare ipotesi e immaginare quadri uno peggiore dell’altro. Proseguiamo e penso che, al momento della catastrofe totale, le civiltà fanno venire in superficie tutta la malvagità, tutte le lordure che si sono accumulate durante i secoli nei geni dell’intelletto. Le forme di questo tartaro sono straordinariamente varie, e da esse si può giudicare quanto disgraziata fosse quella civiltà al momento del cataclisma, ma molto poco si può dire sulla natura del cataclisma, perché i più vari cataclismi — si tratti di un’epidemia totale o di una guerra mondiale o di una catastrofe geologica — portano in superficie sempre lo stesso tartaro: odio, egoismo bestiale, crudeltà, che sembrano giustificati, ma non hanno invece nessuna giustificazione…
Comunicazione da Espada: è riuscito a entrare in contatto. Ordine di Komov: tutti i gruppi preparino gli apparecchi traduttori per lo scambio di informazione linguistica. Sposto la mano sulla schiena, trovo a tastoni l’interruttore del traduttore portatile e lo faccio scattare…
2 giugno dell’anno 78. Maja Glumova, amica di Lev Abalkin
Non persi tempo ad avvertire Maja della mia visita, e alle nove precise mi recai alla Piazza della Stella.
All’alba aveva leggermente piovuto, e l’enorme cubo di marmo non lucidato del museo luccicava tutto bagnato sotto il sole. Da lontano vidi davanti all’ingresso principale una piccola folla e, avvicinandomi, sentii delle esclamazioni scontente e deluse. Pare che dal giorno prima il museo fosse chiuso ai visitatori perché si stava preparando una nuova mostra. Non stetti a perder tempo all’ingresso. Ero già stato nel museo e sapevo dove si trovava l’ingresso del personale. Feci il giro dello stabile e per un vialetto ombroso arrivai a una porticina bassa, che si notava appena dietro il muro ininterrotto di rampicanti intrecciati. Questa porta, di una plastica che imitava il legno di quercia, era anch’essa chiusa. Sulla soglia si dava da fare un robot pulitore. Aveva un’aria proprio abbattuta: durante la notte, poveraccio, si era completamente scaricato, e ora, lì, all’ombra, aveva poche possibilità di caricarsi di nuovo.
Lo scansai con un piede e bussai furiosamente. Risuonò una voce d’oltretomba:
— Il Museo delle Civiltà Extraterrestri è temporaneamente chiuso per la sistemazione delle sale centrali per la nuova mostra. Ci scusiamo e vi preghiamo di tornare fra una settimana.
— Avanti marsch! — dissi ad alta voce, contando su una certa sorpresa.
Intorno non c’era nessuno, ovviamente, solo il robot strideva inquieto intorno alle mie gambe. Evidentemente, lo interessavano le mie scarpe.
Gli diedi una spinta e di nuovo bussai col pugno alla porta.
— Il Museo delle Civiltà Extraterrestri… — ricominciò la voce d’oltretomba e all’improvviso tacque.
La porta si spalancò.
— Guarda, guarda, — dissi ed entrai.
Il robot rimase fuori.
— Beh? — gli dissi. — Entra.
Ma lui indietreggiava, non si decideva e all’improvviso la porta si richiuse.
Nei corridoi c’era un odore non molto forte, ma molto particolare. Avevo notato già da tempo che ogni museo ha il suo odore. C’è un odore particolarmente forte nei musei zoologici, ma anche qui puzzava parecchio. Di civiltà extraterrestri, bisogna supporre.
Diedi un’occhiata nella prima sala che capitò, e vi trovai due ragazze molto giovani che, con in mano dei saldatori molecolari, si davano da fare nelle viscere di una specie di costruzione che ricordava una gigantesca matassa di filo spinato. Chiesi dove potessi trovare Maja Tojvovna, ricevetti indicazioni precise, e continuai a vagare per i corridoi e le sale del settore specializzato in oggetti materiali di uso sconosciuto. Non incontrai nessuno. La maggior parte degli impiegati era, evidentemente, nelle sale centrali, dove ci si occupava della nuova mostra, e qui non c’era niente e nessuno, oltre agli oggetti di uso sconosciuto. Ma di questi oggetti ne avevo ormai visti a sazietà, e fra l’altro mi ero formato la convinzione che il loro uso sarebbe rimasto sconosciuto per i secoli dei secoli, amen.