— Com’è andata alle altalene questa volta, lan?
— Mi hai portato quel paio di mutandine sporche che ti ho chiesto?
— È stato piacevole? E lei ansimava e sbavava?
— La mia bimba di dieci anni, mi fa venir voglia di tornare a casa…
Ian sopportava tutto stoicamente. Era di pessimo gusto, e lui era il bersaglio, ma per la verità non aveva importanza. Sarebbe finito subito dopo il decollo. Loro non avrebbero mai capito che cosa cercava, ma Ian sentiva di capirli. Odiavano venire sulla Terra. Lì non c’era niente per loro, e forse avrebbero desiderato che ci fosse qualcosa.
E del resto, anche lui era uno spacciatore. Non aveva simpatia per gli altri. Era d’accordo con il sentimento espresso da Marian, subito dopo il decollo. Marian aveva appena concluso la sua prima licenza a terra, dopo il suo primo viaggio. Perciò, naturalmente, era più ubriaca di tutti gli altri.
— Rimbecilliti dalla gravità — disse lei, e vomitò.
Tre mesi per arrivare ad Amity, e tre mesi per tornare. Ian non aveva la più vaga idea di quale fosse la distanza calcolata in miglia: dopo il decimo o l’undicesimo zero la sua mente si arrendeva.
Amity. Merdopoli. Non scese neppure dalla nave. Perché prendersi quel disturbo? Il pianeta era popolato da cosi che sembravano un po’ bruchi da dieci tonnellate e un po’ escrementi verdi. Le toelette erano un’idea rivoluzionaria per gli amitiani, e lo erano anche le gelaterie, i sorbetti, le ciambelle zuccherate e la menta piperita. Gli impianti igienici non avevano mai attecchito, ma i dolciumi sì, e i dessert di lusso di tutte le nazioni della Terra. Oltre a quel carico, c’era una borsa di posta consolante per la desolata ambasciata umana. Il carico per il viaggio di ritorno era una brodaglia grigia che qualcuno, sulla Terra, doveva giudicare tremendamente preziosa, e una borsa di lettere disperate per quelli di casa. Ian non aveva bisogno di leggere le lettere per sapere cosa c’era scritto. Tutte si potevano riassumere allo stesso modo: «Portatemi via da qui!»
Ian rimase accanto all’oblò e guardò una famiglia di amitiani che avanzava pesantemente, scorreggiando, lungo la strada dello spazioporto. Ogni tanto si fermavano per fare qualcosa che sembrava un’ammucchiata collettiva aliena. La strada era marrone. Il terreno circostante era marrone e in lontananza c’erano colline marroni. C’era una foschia marrone nell’aria e il sole era giallo-bruno.
Lui pensò ai castelli in vetta a montagne di cristallo, a Principi e Principesse, a fulgidi cavalli bianchi che galoppavano tra le stelle.
Trascorse il viaggio di ritorno come aveva trascorso quello d’andata: sudando nei tubi ciclopici del motore stellare. Al di là delle paratie metalliche palpitavano energie inimmaginabili. E sulle paratie i minuscoli plasmoidi crescevano e diventavano plasmoidi più grandi. Era un processo troppo lento perché fosse osservabile, ma se fossero rimaste incontrollate, le incrostazioni avrebbero menomato molto presto i motori. Il suo compito consisteva nel grattarle via.
Non tutti erano tagliati per fare l’astrogatore.
E con ciò? Era un lavoro onesto. Ian aveva compiuto la sua scelta molto tempo prima. Si passava la vita a sopportare la gravità, oppure a spacciarla. E quando eri stanco, agguantavi qualche z. Se c’era un codice degli spacciatori, era quello.
I plasmoidi erano rossi e cristallini, a forma di goccia. Quando si staccavano dalle paratie, uno dei lati era piatto. Erano pieni di una luce liquida che sembrava calda come il centro del sole.
Era sempre difficile scendere dalla nave. Molti spacciatori non lo facevano mai. Un giorno avrebbe smesso di farlo anche lui.
Per qualche istante rimase fermo a guardare tutto. All’inizio era necessario assorbire tutto passivamente, per abituarsi ai cambiamenti. I grandi cambiamenti non lo preoccupavano. Gli edifici erano soltanto il mobilio del mondo, e non gl’importava come fossero disposti. Ma i piccoli cambiamenti lo preoccupavano a morte. Gli orecchi, per esempio. Pochissime delle persone che vedeva avevano i lobi. Ogni volta che ritornava si sentiva un po’ più simile a uno scimmione caduto dal suo albero. Un giorno sarebbe ritornato e avrebbe scoperto che tutti avevano tre occhi o sei dita, o che alle bambine non piaceva più ascoltare le storie avventurose.
Rimase immobile, esitante, abituandosi al modo in cui la gente si dipingeva la faccia, ascoltando una lingua che sembrava spagnolo, con qualche parola inglese o araba. Prese per il braccio un collega e gli chiese dov’erano. L’uomo non lo sapeva. Perciò lo chiese alla comandante, e lei rispose che erano in Argentina. O almeno, era l’Argentina quando erano partiti.
Le cabine telefoniche erano più piccole. Ian si chiese perché.
C’erano quattro nomi nella sua agenda. Sedette fissando il telefono e domandandosi quale avrebbe dovuto chiamare per primo. I suoi occhi furono attratti da Radiant Shiningstar Smith, e batté quel nome sui tasti. In risposta ebbe un numero e un indirizzo di Novosibirsk.
Controllò l’orario che aveva portato con sé, prima di fare la chiamata, e scoprì che lo shuttle per gli antipodi partiva di lì a un’ora. Poi si asciugò le mani sui calzoni, trasse un profondo respiro, alzò gli occhi e la vide ferma davanti alla cabina telefonica. Si fissarono in silenzio per un momento. Lei vide un uomo molto più basso di quanto ricordasse, ma poderoso, con le mani grandi e le sballe robuste e una faccia butterata che sarebbe stata sgradevole per chiunque non avesse un animo gentile. Lui vide una donna alta, sulla quarantina, e bella esattamente come si aspettava che fosse. La mano del tempo aveva appena incominciato a sfiorarla. Ian pensò che probabilmente aveva qualche problema per conservare la vita snella e si preoccupava per le prime rughe, ma tutto questo non gl’importava. C’era una sola cosa che gl’importava, e prestissimo avrebbe saputo.
— Tu sei Ian Haise, non è vero? — chiese finalmente lei.
— È stata una pura fortuna che mi ricordassi di te — stava dicendo lei. Ian notò la scelta delle parole. Avrebbe potuto dire «coincidenza».
— È stato due anni fa. Stavamo per traslocare di nuovo e stavo scegliendo la roba da portar via quando ho trovato il plasmoide. Non avevo più pensato a te da… oh, dovevano essere quindici anni.
Ian disse qualcosa di vago. Erano in un ristorante, lontano da quasi tutti gli altri avventori, in un separé accanto a una vetrata oltre la quale le astronavi venivano portate avanti e indietro sulle rampe di lancio.
— Spero di non averti causato fastidi — disse lui. Lei alzò le spalle.
— Qualcuno, ma è passato tanto tempo. Non posso certo serbare rancore per tanti anni. E il fatto è che a quel tempo pensavo che ne valesse la pena.
Gli raccontò dello scalpore che aveva causato in famiglia, delle visite della polizia, le domande, le perplessità, l’impotenza conclusiva. Nessuno sapeva cosa pensare di ciò che lei aveva raccontato. Lo avevano identificato abbastanza rapidamente, ma avevano accertato che aveva lasciato la Terra e non sarebbe tornato per molto, molto tempo.
— Non avevo trasgredito nessuna legge — disse Ian.
— È ciò che nessuno riusciva a capire. Dissi che mi aveva parlato e mi avevi raccontato una lunga storia, e io mi ero addormentata. Nessuno mostrava il minimo interesse per la storia. Così non gliela riferii. E non parlai della… della Pietra Stellare. — Lei sorrise. — Per la verità era un sollievo che non l’avessero chiesto. Ero decisa a non dirglielo, ma avevo un po’ paura a nascondere tutto. Pensavo che fossero agenti dei… chi erano i cattivi della tua storia? L’ho dimenticato.