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È sufficiente un momento per descrivere tutte queste immagini, che io avevo studiato a lungo. I decenni di un saros non basterebbero per illustrare cosa significassero per me, misero apprendista. Due idee, più simili a sogni, mi ossessionavano e me le rendevano particolarmente care. La prima era che in un futuro non troppo remoto il tempo stesso si sarebbe fermato… i giorni colorati che per anni si erano snodati come il cordone di sciarpe di un prestigiatore sarebbero terminati e il sole si sarebbe infine spento. La seconda idea era che da qualche parte esisteva una luce miracolosa — che a seconda dei momenti mi raffiguravo come una candela o come una torcia — che infondeva la vita in tutti gli oggetti su cui si posava, così che una foglia colta da un cespuglio metteva esili zampe e faceva ondeggiare le antenne e un ruvido arbusto apriva gli occhi neri e si arrampicava su un albero.

Eppure talvolta, specialmente nelle sonnolente ore del meriggio, c'era ben poco da osservare. In tali situazioni mi dedicavo al blasone sovrastante la porta e mi domandavo cosa potessero aver a che fare con me una nave, una rosa e una fontana, e guardavo fisso il funebre bronzo che avevo raccolto, pulito e appoggiato in un angolo. Il morto vi era rappresentato disteso e con gli occhi chiusi. Nella luce che penetrava dalla finestrella scrutavo quel volto e lo confrontavo al mio, riflesso nel lucido metallo. Il mio naso diritto, gli occhi infossati e le guance incavate assomigliavano molto alle fattezze dell'immagine, e mi sarebbe piaciuto molto sapere se anche quell'uomo aveva avuto i capelli scuri.

Durante l'inverno mi recavo molto raramente nella necropoli, ma d'estate quello e altri mausolei profanati mi offrivano molteplici luoghi di osservazione e di frescura. Con me venivano anche Drotte, Roche ed Eata, ma non li conducevo mai nel mio rifugio preferito, e comunque anche loro avevano dei luoghi segreti. Quando eravamo insieme non entravamo quasi mai nelle tombe, ma ci creavamo delle spade fatte di fuscelli e combattevamo, oppure lanciavamo pigne ai soldati o ancora tracciavamo delle scacchiere sul terreno delle tombe più recenti e giocavamo a dama con dei sassolini o facevamo cento altri giochi.

Ci divertivamo anche a entrare in quel labirinto che era la Cittadella e nuotavamo nella grande cisterna sottostante il Forte della Campana. Là, sotto il soffitto a volta e accanto alla vasca circolare colma di acqua oscura e profonda, era fresco e umido anche in piena estate. Durante l'inverno la temperatura non era molto diversa e oltretutto quel luogo era proibito, perciò sgattaiolavamo laggiù di nascosto quando tutti ci credevano altrove e accendevamo le torce solo dopo aver richiuso la botola alle nostre spalle. Poi, quando la luce scaturiva dalla pece ardente, come danzavano le nostre ombre sulle pareti viscide!

L'altro posto in cui andavamo a nuotare era, come ho già detto, il Gyoll, che si snoda attraverso Nessus come un serpentone stanco. Nella stagione calda percorrevamo tutta la necropoli per giungere fin laggiù, passando tra i vecchi sepolcri illustri che sorgevano più vicino alla Cittadella, poi tra le vanagloriose cappelle degli ottimati, quindi attraverso la foresta di pietra delle tombe comuni (e noi ci sforzavamo di darci un tono di grande rispettabilità quando dovevamo passare davanti alle robuste guardie appoggiate alle loro armi). Infine procedevamo oltre la distesa dei tumuli completamente spogli che indicavano le sepolture dei poveri e che franavano trasformandosi in pozze d'acqua alle prime piogge.

Al margine inferiore della necropoli si trovava il cancello di ferro che ho già descritto. Attraverso esso venivano trasportati i cadaveri destinati al campo dei vasai. Quando oltrepassavamo quel cancello arrugginito ci sentivamo veramente fuori dalla Cittadella e perciò dei perfetti trasgressori delle norme che avrebbero dovuto regolare i nostri spostamenti. Credevamo (o fingevamo di credere) che se i nostri confratelli più anziani ci avessero scoperti ci avrebbero sottoposti a tortura; in verità la cosa peggiore che ci sarebbe potuta capitare sarebbe stata una semplice battitura, perché tale è la bontà dei torturatori, che in un secondo tempo io avrei tradito.

Il maggior pericolo era costituito dagli abitanti dei caseggiati che costeggiavano quella lurida strada. Talvolta penso che la corporazione sia esistita tanto a lungo perché fungeva da bersaglio per l'odio del popolo, che veniva in tal modo distolto dall'Autarca, dagli esultanti, dall'esercito e addirittura, in una certa misura, dai pallidi cacogeni che di tanto in tanto visitano Urth provenienti dalle stelle più lontane.

Gli stessi indizi che facevano intuire alle guardie la nostra identità parevano ispirare gli abitanti dei caseggiati che a volte ci rovesciavano addosso le risciacquature dei piatti, accompagnandole con un rabbioso mormorio. Ma il timore che generava un tale odio serviva anche a proteggerci. Non venivano mai compiute violenze contro di noi e un paio di volte, quando si spargeva la voce che qualche wildgrave dispotico o qualche borghese venale era caduto nelle mani della corporazione, ci urlavano dei suggerimenti sul trattamento da riservargli… quasi sempre proposte oscene e impossibili.

Nel luogo in cui ci recavamo a nuotare, il Gyoll aveva perso le sue sponde naturali da diverse centinaia di anni, diventando semplicemente una distesa ampia due catene e ricoperta da nerufari azzurri che si allargava tra due muraglioni di pietra. In diversi punti erano state intagliate delle scale che servivano per raggiungere gli ormeggi delle barche; nelle giornate calde, ciascuna di quelle scale era occupata da un gruppetto di dieci o quindici ragazzi muscolosi. Noi quattro non eravamo in grado di spodestarli, ma quelli non potevano — o non volevano — bloccarci il passaggio, sebbene quando ci avvicinavamo ci minacciassero e ci deridessero. Comunque, si allontanavano in breve tempo e ci lasciavano padroni del territorio fino alla volta successiva.

Ho deciso di raccontare tutto questo perché non feci più ritorno al fiume dopo quell'occasione in cui salvai Vodalus. Drotte e Roche credevano che dipendesse dal fatto che temevo di restare chiuso fuori. Eata invece capì: penso… che prima di diventare uomini i ragazzi possiedano un intuito vagamente femminile. Dipendeva dai nerufari.

Mai la necropoli mi era parsa una città di morti; so perfettamente che le sue rose purpuree (che altri giudicano tanto odiose) ospitano migliaia di animaletti e di uccelli. Le esecuzioni alle quali ho assistito e che io stesso ho compiuto non sono altro che un normale macello di esseri umani, generalmente meno innocenti e meno preziosi del bestiame. Quando penso alla mia morte, o a quella di qualcuno che è stato buono con me, o alla morte del sole, mi viene sempre in mente l'immagine del nerufaro, con le lucide foglie pallide e il fiore azzurro. Sotto il fiore e le foglie si estendono le radici nere, sottili e resistenti come capelli, che penetrano nelle acque scure.

Da ragazzi non badavamo a queste piante. Sguazzavamo e vi nuotavamo in mezzo, spingendole da parte e ignorandole. Il loro profumo riusciva a coprire in parte il lezzo dell'acqua. Il giorno in cui salvai Vodalus mi ero tuffato sotto quel tappeto di foglie come mille altre volte.

Non ritornai a galla. Ero capitato in un tratto in cui le radici erano apparentemente molto più fitte del solito. Restai immediatamente aggrovigliato in cento reti. Tenevo gli occhi spalancati ma non riuscivo a vedere niente… solo la nera trama delle radici. Continuavo a nuotare ma mi rendevo conto che, nonostante le mie braccia e le mie gambe si muovessero tra quei milioni di sottili tentacoli, il mio corpo non avanzava. Li afferravo con le mani e li separavo, ma rimanevo ugualmente bloccato. I polmoni parvero salirmi in gola fino a soffocarmi, come se stessero per esplodere nell'acqua. Provavo un irresistibile impulso di respirare, di risucchiare quel liquido torbido e freddo che mi circondava.

Non riuscivo più a capire dove fosse la superficie e l'acqua non mi pareva più acqua. Le forze mi avevano abbandonato, ma non avevo paura, nonostante fossi consapevole che ero in punto di morte, se non ero già morto. Le orecchie mi ronzavano terribilmente e iniziavo ad avere delle visioni.