Il Maestro Malrubius, morto già allora da parecchi anni, era solito svegliarci picchiando un cucchiaio contro la paratia: e quello era il rumore metallico che avvertivo. Ero steso sulla mia branda, incapace di sollevarmi, nonostante Drotte, Roche e i ragazzi più piccoli fossero tutti in piedi e sbadigliassero vestendosi a tentoni. Il Maestro Malrubius teneva il mantello gettato all'indietro: distinguevo la pelle molle del petto e del ventre, dove il tempo aveva distrutto i muscoli e il grasso. Sul suo petto si stagliava un triangolo di pelo grigio come la muffa. Mi sforzai di chiamarlo e di dirgli che mi ero svegliato, ma non riuscivo a parlare. Lui si incamminò lungo la paratia continuando a battere il cucchiaio. Dopo un tempo che mi parve eterno raggiunse l'oblò, si fermò e si sporse. Capivo che mi stava cercando nel Vecchio Cortile, là sotto.
Ma non avrebbe potuto trovarmi, perché io ero in una delle celle sottostanti la sala dell'interrogatorio. Me ne stavo steso sul dorso a guardare il soffitto grigio. Una donna stava piangendo, ma non potevo vederla, e comunque più dei suoi singhiozzi percepivo l'incessante tintinnio del cucchiaio. L'oscurità si chiuse sopra di me, e da essa emerse il volto di una donna, immenso come la faccia verde della luna. Non era lei a piangere, però; udivo ancora i singhiozzi, ma quel viso era imperturbato e possedeva quel genere di bellezza che raramente si riesce a esprimere. Allungò le mani verso di me e io divenni l'uccellino che l'anno prima avevo tolto dal nido nel desiderio di addomesticarlo e di insegnargli a posarsi sulle mie dita; ognuna delle sue mani era grande quanto i sarcofaghi nei quali mi abbandonavo nel mio mausoleo segreto. Quelle mani mi afferrarono, mi sollevarono, quindi mi allontanarono dal suo volto e dai singhiozzi, immergendomi nelle tenebre, fino a quando toccai quello che mi parve il fango del fondale e irruppi in un mondo luminoso orlato di nero.
Non potevo ancora respirare, o meglio, non volevo più farlo, e il mio torace non si muoveva più spontaneamente. Stavo scivolando nell'acqua, sebbene non riuscissi a capire come. (In un secondo tempo seppi che era stato Drotte ad afferrarmi per i capelli.) Poi mi ritrovai steso sui sassi freddi e scivolosi e prima Roche, quindi Drotte e infine di nuovo Drotte mi respirarono in bocca. Vedevo tanti occhi come si vedono i reiterati motivi di un caleidoscopio, e credetti che un difetto della mia vista moltiplicasse gli occhi di Eata.
Infine mi divincolai da Roche e rigettai grandi quantità di acqua nera. Mi sentii meglio e riuscii a stare seduto e a respirare, faticosamente, e nonostante fossi privo di forze e le mani mi tremassero, potevo muovere le braccia. Gli occhi che mi circondavano appartenevano a persone vere, gli abitanti dei caseggiati che costeggiavano il fiume. Una donna mi offrì una ciotola contenente qualcosa di caldo… non capivo se fosse brodo o tè, mi accorsi solo che scottava, che era un po' salato e che sapeva di fumo. Finsi di bere e più tardi mi resi conto di essermi fatto delle piccole scottature sulle labbra e sulla lingua.
— L'hai fatto di proposito? — domandava Drotte. — Come sei riuscito a risalire?
Scrollai il capo.
Qualcuno fra la folla commentò: — È schizzato fuori dall'acqua!
Roche mi teneva la mano. — Abbiamo pensato che tu fossi riemerso da qualche altra parte e che volessi farci uno scherzo.
Io dissi: — Ho visto Malrubius.
Un vecchio che aveva l'aspetto di un barcaiolo, considerati i vestiti sporchi di catrame, prese Roche per la spalla. — Chi è?
— Era il maestro degli apprendisti. È morto.
— Era una donna? — Il vecchio stringeva Roche ma fissava me.
— No, no — disse Roche. — Non ci sono donne nella nostra corporazione.
Nonostante la bevanda bollente e il caldo della giornata tremavo; uno dei ragazzi con i quali di tanto in tanto ci azzuffavamo portò una coperta impolverata e io me la avvolsi addosso, ma mi occorse talmente tanto tempo per riprendermi che quando arrivammo al cancello della necropoli la statua della Notte, sul khan della riva opposta, era ridotta a un minuscolo graffio scuro contro la distesa fiammeggiante del sole, e il cancello era già chiuso.
III
IL VOLTO DELL'AUTARCA
Solo la mattina seguente pensai di osservare la moneta che mi aveva dato Vodalus. Come ogni giorno, dopo aver servito gli artigiani nel refettorio, avevamo fatto colazione e avevamo trovato il Maestro Palaemon nella nostra classe. Dopo una breve lezione preparatoria lo seguimmo ai piani inferiori per commentare il lavoro della sera precedente.
Forse, prima di proseguire nella narrazione, dovrei spiegare meglio come sia strutturata la Torre di Matachin. Essa sorge nella parte posteriore della Cittadella, verso ovest. Il piano terreno è occupato dagli studi dei nostri maestri, nei quali avvengono le consultazioni con gli ufficiali di giustizia e i capi delle altre corporazioni. La sala comune si trova al primo piano, vicino alla cucina. Al secondo è situato il refettorio, che viene usato anche per le nostre riunioni; al terzo ci sono le cabine private dei maestri, che in tempi più felici erano molto più numerosi. Sopra a queste si aprono le cabine degli artigiani, quindi il dormitorio e la classe degli apprendisti e una serie di soffitte e cubicoli disabitati. Quasi in cima si trova la camera dei cannoni, con i pezzi rimasti, che noi della corporazione dovremmo usare se la Cittadella venisse attaccata.
Il lavoro principale della corporazione avviene sottoterra. Scendendo si incontrano innanzitutto la sala degli interrogatori, quindi il labirinto delle segrete, che però è stato scavato al di fuori del perimetro originario della torre, che ingloba solo la sala degli interrogatori, suo nucleo originario. Il labirinto si estende su tre diversi livelli, raggiungibili grazie a una scala centrale. Le celle sono asciutte e pulite, fornite di un tavolino, una sedia e un letto fissato al centro del pavimento.
Là sotto le lampade sono di quel tipo antico che si dice arda in eterno, sebbene molte ormai si siano spente. Nella penombra dei corridoi, quella mattina i miei pensieri erano tutt'altro che tetri… lì avrei lavorato per diventare artigiano, lì avrei imparato l'antica arte e avrei conseguito il grado di maestro, avrei dato l'avvio alla ripresa della corporazione, restituendole la gloria di un tempo. L'atmosfera di quel sotterraneo pareva avvolgermi come un lenzuolo intiepidito accanto a un fuoco di legna profumata.
Ci arrestammo di fronte alla porta di una cella e l'artigiano di turno girò la chiave nella serratura. Dentro, la cliente sollevò la testa, spalancando gli occhi scuri. Il Maestro Palaemon indossava il mantello orlato d'ermellino e la maschera di velluto propria del suo grado. Credo che fossero questi ornamenti a impaurita, oltre allo strumento ottico che gli permetteva di vedere. La donna non profferì parola e, naturalmente, nessuno di noi parlò a lei.
— Qui — iniziò il Maestro, con il suo tono più asciutto, — abbiamo un esempio che esula dalla consueta punizione giudiziaria e che illustra perfettamente le tecniche moderne. Ieri sera la cliente è stata interrogata… probabilmente qualcuno di voi l'avrà sentita. Prima della pena le sono stati somministrati venti minimi di tintura e dieci le sono stati dati dopo. La dose ha aiutato solo in parte a prevenire lo shock e la perdita dei sensi, perciò il procedimento è stato interrotto dopo lo scuoiamento della gamba destra, come potete vedere. — Fece un cenno a Drotte che iniziò a levare le bende.
— Mezzo stivale? — domandò Roche.
— No, intero. Era una serva, e il Maestro Gurloes sostiene che hanno la pelle forte. Ha avuto ragione. È stata praticata una semplice incisione circolare appena sotto il ginocchio e il bordo è stato stretto da otto pinze. Il lavoro di precisione del Maestro Gurloes, Odo, Mennas ed Eigil ha permesso di prelevare tutto dal ginocchio alle dita senza ulteriori interventi con il coltello.