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Ci radunammo intorno a Drotte. I ragazzi più piccoli si facevano avanti come se sapessero i punti che dovevano guardare. Le arterie e le vene principali erano rimaste intatte, ma c'era una lenta e generalizzata perdita di sangue. Aiutai Drotte a fare una nuova fasciatura.

Mentre stavamo per andarcene, la donna disse: — Non lo so. Credete che se lo sapessi non lo direi? Se ne è andata con Vodalus del Bosco, ma non so dove. — Quando fummo usciti, domandai al Maestro Palaemon chi fosse Vodalus del Bosco, fingendo di non saperlo.

— Quante volte ti ho ripetuto che non devi prestare ascolto a quello che viene detto da un cliente durante un interrogatorio?

— Molte volte, Maestro.

— Ma invano. Tra poco giungerà il giorno delle maschere e Drotte e Roche diventeranno artigiani mentre tu sarai nominato capo degli apprendisti. È questo l'esempio che darai ai ragazzi?

— No, Maestro.

Alle sue spalle, Drotte mi fece capire di sapere molte cose sul conto di Vodalus e che me le avrebbe riferite appena possibile.

— Un tempo gli artigiani della corporazione venivano privati dell'udito. Ti piacerebbe che quell'usanza tornasse di moda? E levati le mani dalle tasche quando ti parlo, Severian.

Avevo messo le mani in tasca perché sapevo che in tal modo avrei sviato la sua ira, ma quando le tirai fuori mi accorsi di stringere fra le mani la moneta che mi aveva regalato Vodalus la sera prima. Sopraffatto dalla paura dello scontro me ne ero dimenticato; smaniavo di vederla… ma non potevo, perché la lente del Maestro Palaemon era fissa su di me.

— Quando parla un cliente, Severian, tu non devi ascoltare niente. Assolutamente niente. Pensa ai topi, il cui squittio non ha alcun senso per gli uomini.

Strizzai gli occhi per mostrare che stavo pensando ai topi.

Nel corso della lunga ed estenuante salita che ci avrebbe ricondotti nella nostra classe, ardevo per il desiderio di poter guardare il sottile disco metallico che tenevo stretto fra le dita, ma sapevo bene che, se l'avessi fatto, il ragazzo che mi stava dietro, uno degli apprendisti più giovani, l'avrebbe notata. Una volta giunti in classe, mentre il Maestro Palaemon teneva una lezione su un cadavere di dieci giorni, la moneta era come una brace, e io non osavo posarle sopra gli occhi.

Solo nel pomeriggio riuscii ad appartarmi da solo, nascondendomi fra le rovine del bastione e i suoi muschi lucidi. Ma esitavo, tenendo il pugno teso sotto un raggio di sole, nel timore di poter provare una delusione troppo intensa quando finalmente l'avessi fissata.

Non era il valore della moneta a interessarmi tanto. Nonostante fossi quasi un uomo, avevo sempre posseduto così poco denaro che qualunque fosse stato il suo pregio a me sarebbe parsa un tesoro. Il fatto era che quella moneta allora così misteriosa era l'unico legame che mi univa alla notte precedente, il mio unico contatto con Vodalus, la bella donna incappucciata e l'uomo massiccio con cui mi ero scontrato; era l'unico bottino da me conseguito nella battaglia avvenuta accanto alla tomba appena profanata. La vita all'interno della corporazione era l'unica che conoscessi e per la prima volta mi parve squallida quanto la mia camicia lacera in confronto al balenio della spada dell'esultante e al suono dello sparo che era riecheggiato tra le lapidi. Ma tutto quello poteva sparire una volta che avessi aperto la mano.

Infine guardai, dopo aver bevuto fino in fondo quelle gradevoli paure. La moneta era un crisio d'oro; richiusi la mano, nel timore di aver confuso con un crisio un semplice oricalco di bronzo, e aspettai fino a quando ebbi il coraggio.

Era la prima volta che toccavo un pezzo d'oro. Avevo visto diversi oricalchi e ne avevo addirittura posseduto qualcuno, e avevo anche visto un paio di volte gli asimi d'argento. Ma i crisii li conoscevo solo vagamente, allo stesso modo in cui conoscevo l'esistenza di una realtà diversa al di fuori della nostra città di Nessus e degli altri continenti a nord, a est e a ovest.

Sulla moneta era raffigurata un'effigie che in un primo momento mi parve il volto di una donna… una donna incoronata, né giovane né vecchia, ma silenziosa e perfetta nel metallo citrino. Infine voltai il mio tesoro e trattenni il respiro: sull'altro lato era impressa una nave volante come quella rappresentata nello stemma sovrastante la porta del mio mausoleo segreto. Mi pareva una coincidenza talmente inspiegabile che al momento non ci feci nemmeno caso, convinto che sarebbe stato del tutto inutile pensarci. Riposi in tasca la moneta e, sprofondato in una specie di trance, corsi a raggiungere gli altri apprendisti.

Non mi conveniva affatto tenere la moneta con me. Così, appena mi fu possibile, sgattaiolai da solo nella necropoli e raggiunsi il mio mausoleo. Quel giorno, il tempo era mutato e io passai tra gli arbusti sgocciolanti e sull'erba alta e vecchia che aveva già iniziato ad appiattirsi per l'inverno. Quando lo raggiunsi, il mio non era più il rifugio invitante dell'estate, ma una gelida trappola nella quale percepivo la vicinanza di nemici troppo infidi per avere un nome, gli avversari di Vodalus che certamente oramai mi conoscevano per un suo fedele seguace. Avevo la sensazione che una volta entrato nel mausoleo, essi si sarebbero scaraventati a chiudere la porta nera sui cardini oliati di fresco. Sapevo che non era possibile, naturalmente, eppure mi rendevo conto che in tutto quello c'era un fondo di verità, una contiguità nel tempo. Era questione di mesi o forse di anni ma avrei infine raggiunto il punto in cui quei nemici mi attendevano: quando avevo sferrato quel colpo di scure, avevo deciso di combattere, scelta che generalmente un torturatore non fa.

Quasi ai piedi del mio bronzo funebre vidi una pietra smossa. La sollevai e vi posai sotto il mio crisio, bisbigliando un incantesimo che avevo imparato anni prima da Roche, il cui scopo era quello di proteggere un oggetto nascosto:

«Rimani dove ti ho lasciato, Non farti vedere da nessuno, Diventa trasparente come il vetro, Ma non per me.
Rimani qui ben riparato, Inganna la mano di ciascuno, Finché non tornerò indietro E ti rivedrò.»

Per rendere l'incantesimo veramente efficace era necessario correre intorno al nascondiglio a mezzanotte reggendo una candela di grasso di cadavere, ma quell'ipotesi mi fece ridere — mi venne in mente la storiella di Drotte sulle erbe mediche da raccogliere a mezzanotte sulle tombe — e stabilii di fidarmi dei soli versi, sebbene mi sorprese accorgermi che ero ormai abbastanza cresciuto da non vergognarmene.

Trascorsero i giorni e il ricordo della visita al mausoleo restò abbastanza vivido in me da dissuadermi dal farne un'altra per verificare le condizioni del mio tesoro, nonostante lo desiderassi. Sopraggiunse la prima nevicata e le rovine del bastione si trasformarono in una barriera sdrucciolevole e quasi inattaccabile, mentre la necropoli appariva uno strano deserto di dossi fallaci, nel quale i monumenti apparivano improvvisamente, troppo grandi sotto quella coltre nuova che schiacciava alberi e cespugli.

Nella nostra corporazione l'apprendistato, dopo un facile inizio, diventa sempre più impegnativo e pericoloso man mano che ci si avvicina all'età adulta. I bambini più piccoli non hanno alcun incarico. A sei anni iniziano a svolgere semplici incombenze come messaggeri correndo lungo le scale della Torre di Matachin. Il piccolo apprendista, orgoglioso di tanta fiducia, non percepisce nemmeno la fatica.

Tuttavia, con il passare degli anni il lavoro diventa sempre più oneroso e conduce i giovani in varie parti della Cittadella… dai soldati nel barbacane, dove si scopre che gli apprendisti militari possiedono tamburi, trombe, oficleidi e talvolta persino corazze dorate; alla Torre dell'Orso, nella quale si vedono ragazzini più o meno coetanei che imparano a domare stupendi animali da combattimento appartenenti a ogni razza, mastini con la testa grande quanto quella dei leoni, diatrime più alte di un uomo con i becchi inguainati d'acciaio; in cento altri posti, nei quali per la prima volta si comprende che la corporazione dei torturatori è odiata e denigrata anche e specialmente da coloro che se ne servono. Poi si comincia a pulire e a lavorare in cucina. Il confratello Cuoco bada solo alle attività che trova piacevoli, lasciando all'apprendista il compito di tagliare la verdura, servire gli artigiani e portare i vassoi nelle segrete.