Quando mi era possibile, mi recavo alla Torre dell'Orso per stringere amicizia con i migliori addestratori. Hanno la loro corporazione e, nonostante non siano importanti quanto noi, hanno molte strane usanze. Da un certo punto di vista, e questo mi stupiva, tali usanze erano identiche alle nostre, anche se naturalmente non potevo approfondirne i segreti. Per essere elevato al rango di maestro, il loro candidato viene collocato sotto una grata metallica, dove viene fatto passare un toro sanguinante; e a un certo punto della vita ogni confratello deve prendere in moglie una leonessa o un'orsa e da quel momento deve stare lontano dalle donne umane.
Tutto questo per spiegare come si venga a creare tra loro e gli animali un legame molto analogo a quello che si instaura tra noi e i nostri clienti. Adesso che ho viaggiato molto lontano dalla mia torre, posso dire che il modello della nostra corporazione si ripete insensatamente (come gli specchi di Padre Inire nella Casa Assoluta) all'interno di ogni organizzazione, perciò sono tutti torturatori come noi. La selvaggina è per un cacciatore quello che il cliente è per noi, e lo stesso vale per l'acquirente e il mercante, il nemico della Repubblica e il soldato, il governato e il governante, l'uomo e la donna. Tutti amano quello che distruggono.
Una settimana dopo aver nascosto il cane laggiù, trovai solamente le impronte serpeggianti di Triskele nel fango. Se ne era andato. Mi misi a cercarlo, convinto che qualche artigiano l'avrebbe notato se avesse cercato di salire la rampa. Notai che le orme conducevano a una porticina che dava su un labirinto di corridoi bui, dei quali ignoravo l'esistenza. Nell'oscurità non riuscivo più a seguire le sue impronte, ma avanzai pensando che se avesse riconosciuto il mio odore nell'aria muffita si sarebbe avvicinato. Ben presto mi persi e continuai ad andare avanti soltanto perché non sapevo tornare indietro.
Non so quanto siano vecchi quei corridoi, ma ritengo, anche se non so per quale motivo, che siano ancora più antichi della Cittadella sovrastante, pure antichissima. Essa appartiene alla fine di quell'epoca in cui era ancora forte l'impulso a fuggire in cerca di nuovi soli, nonostante i mezzi per mettere in pratica la fuga si spegnessero come fuochi morenti. Per quanto quel tempo sia remoto e si ricordi a malapena il suo nome, ne parliamo anche adesso. E prima ancora doveva esserci stata un'altra epoca, un tempo di scavi che aveva generato le gallerie oscure, un tempo ormai completamente dimenticato.
Comunque, avevo paura. Mi misi a correre — e talvolta andavo a sbattere contro le pareti — e continuai fino a quando non intravidi un pallido barlume di luce in alto; mi arrampicai e passai attraverso un pertugio che mi permetteva appena di passare con la testa e con le spalle.
Mi ritrovai sul piedestallo ricoperto di ghiaccio di una di quelle vecchie meridiane sfaccettate nelle quali ogni sfaccettatura indica un'ora diversa. Sicuramente per colpa del ghiaccio che negli ultimi secoli si era insinuato nella galleria si era sollevato e inclinato e ora se ne stava angolato come se stesse indicando il breve passaggio della giornata invernale sulla neve vergine.
Durante l'estate il terreno lì intorno doveva essersi trasformato in un giardino, anche se in maniera diversa dalla nostra necropoli con i suoi alberi semiselvatici e i prati ondulati. Lì invece, fra i crateri che si aprivano nel pavimento a tasselli, erano fiorite le rose.
Notai statue di animali che voltavano le spalle ai quattro muri del cortile e finestre alte e strette, dalle quali però non penetrava un filo di luce. Niente si muoveva. Da ogni lato si innalzavano le torri acuminate della Cittadella; mi parve di essere vicino al cuore, luogo in cui non mi ero mai avventurato. Tremante per il freddo bussai alla porta più vicina. Sentivo che avrei potuto vagare perennemente in quelle gallerie sotterranee senza riuscire a risalire in superficie ed ero pronto a sfondare una finestra piuttosto che dover tornare indietro. Continuai a colpire la porta con il pugno ma nessuno mi aprì.
Non è possibile descrivere la sensazione di essere osservato. Ne ho sentito parlare come di un formicolio alla testa o come dell'impressione di occhi che aleggiano nel buio, ma non è vero… almeno, non per me. Si tratta di una specie di imbarazzo immotivato unito alla certezza di non doversi voltare per non fare la figura dello stupido che si lascia governare da un'intuizione priva di fondamento. Naturalmente, alla fine ci si volta. Io lo feci, convinto di essere stato seguito attraverso il pertugio alla base della meridiana.
Sul lato opposto del cortile notai una giovane donna avvolta da una pelliccia. Agitai una mano e mi avviai verso di lei a grandi passi, rattrappito dal freddo. Anche lei si mosse e ci incontrammo dall'altro lato della meridiana. Mi domandò chi fossi e cosa stessi facendo lì e io le risposi cercando di essere il più chiaro possibile. Il volto contornato dal cappuccio di pelliccia era squisitamente modellato e il mantello e gli stivali orlati di pelo apparivano tanto morbidi e ricchi che io mi vergognai dei miei vestiti rattoppati e dei miei piedi infangati.
Si chiamava Valeria. — Il tuo cane non è qui — disse. — Cercalo pure, se credi.
— Non ho mai creduto che l'aveste preso. Vorrei solamente fare ritorno alla Torre di Matachin senza dover scendere un'altra volta là sotto.
— Sei coraggioso. Conosco quel pertugio fin dall'infanzia ma non ho mai osato attraversarlo.
— Io vorrei entrare — dissi. — Lì dentro, intendo.
Lei aprì la porta dalla quale era venuta e mi accompagnò in una sala ornata di arazzi, nella quale le rigide sedie antiche parevano inchiodate al loro posto come le statue del cortile ghiacciato. Su una grata posta contro un muro fumava un piccolo fuoco. Ci avvicinammo e lei si levò il mantello mentre io allungavo le mani verso la fiamma.
— Nelle gallerie non faceva freddo?
— Non come fuori. Inoltre correvo e non c'era il vento.
— Capisco. È strano che sfocino nell'Atrio del Tempo. — Mi sembrava più giovane di me, ma nel suo vestito bordato di metallo e nei suoi capelli scuri c'era qualcosa di antico che la faceva apparire più vecchia del Maestro Palaemon, una specie di sopravvissuta di un passato dimenticato.
— È così che lo chiami? L'Atrio del Tempo? Immagino che dipenda dalle meridiane.
— No. Le meridiane vi furono collocate di conseguenza. Ti piacciono le lingue morte? Possiedono degli interessanti modi di dire. Lux dei vitae viam monstrat: il raggio del Sole Nuovo mostra la via della vita. Felicibus brevis, miseris hora longa: gli uomini attendono a lungo la felicità. Aspice ut aspiciar.
Dovetti ammettere, con un certo imbarazzo, di non conoscere altra lingua all'infuori di quella che parlavo, e nemmeno molto correttamente.
Chiacchierammo per la durata di un turno di guardia o forse più. La sua famiglia abitava quelle torri. Dapprincipio avevano sperato di poter lasciare Urth con l'Autarca del tempo e avevano atteso a lungo, non potendo fare diversamente. Avevano dato diversi castellani alla Cittadella e l'ultimo era già morto da diverse generazioni; ormai erano poveri e le loro torri erano in rovina. Valeria non era mai salita sopra i piani inferiori.
— Alcune torri sono state costruite in maniera da durare più delle altre — dissi io. — Anche la Fortezza delle Streghe dentro è in rovina.
— Esiste veramente? La mia balia me ne parlava per spaventarmi, quando ero piccola, ma pensavo che si trattasse solo di una fiaba. E mi raccontava anche di una Torre del Tormento, nella quale tutti quelli che entravano morivano tra le sofferenze.