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— Siamo in grado di resistere a lungo qui dentro, signore, e possiamo tenerci pronti per un eventuale impatto. Non vedo cos’altro si possa fare…

— Una sola cosa — mormorò cupamente Dondragmer, sollevandosi di nuovo fino ai tubi acustici e richiamando l’attenzione generale con quel suo lungo ululato a sirena. Una volta sicuro che tutti lo stavano ascoltando, mosse indietro di qualche decina di centimetri per sistemarsi alla stessa distanza da tutti i tubi e iniziò a parlare a voce alta per farsi sentire in modo chiaro.

— Voglio che tutto l’equipaggio indossi immediatamente le tute spaziali. Abbandonate pure i vostri posti, pronti però a tornarvi non appena le avrete indossate — ordinò. Poi si abbassò sulla piattaforma di comando e si rivolse a Beetchermarlf. — Vada a prendere la mia e la sua tuta spaziale, svelto.

Il timoniere fu di ritorno entro un minuto e mezzo. Si avvicinò al capitano per aiutarlo a infilarsi la tuta, ma fu allontanato con gesto imperioso e scese a infilarsi la propria. Due minuti dopo, entrambi i mescliniti facevano ritorno alle proprie posizioni, un po’ impacciati dalla tuta trasparente.

Ma tutta quella fretta si rivelò superflua. Passò del tempo, mentre Beetchermarlf giocherellava con l’inutile timone e Dondragmer si chiedeva se gli scienziati umani potevano, per una volta, saltar fuori con qualche informazione che fosse utile oltre che accademica. Sperava più che altro che i satelliti riuscissero a determinare la loro velocità e direzione. Sarebbe stato simpatico, pensò con cinismo, sapere in anticipo quanto forte sarebbe stata la botta che erano destinati a prendere al termine del viaggio. Ma questa era un’informazione difficile da ottenere e lui lo sapeva bene. Più di trenta satelliti circondavano ormai il pianeta, ma orbitavano a meno di cinquemila chilometri dalla superficie. Nessuno aveva mai pensato di elevare le loro orbite, perché il loro ridotto campo di rilevazione visiva e infrarossa garantiva in pratica lo studio perfetto di una determinata superficie. La base spaziale umana, che stazionava a dieci milioni di chilometri dalla colonia, avrebbe teoricamente dovuto seguire tutti i ricognitori grazie alla sua sofisticatissima strumentazione. Infine, la velocità dei satelliti, che si avvicinava a centocinquanta chilometri al secondo, rappresentava senza dubbio una difficoltà per il rilevamento temporaneo nonostante gli umani affermassero che era necessaria per mantenere sotto controllo tutta l’area coperta dai ricognitori. Insomma, Dondragmer dubitava che i satelliti potessero essergli di qualche aiuto e sapeva che la base spaziale non lo vedeva perché da loro non aveva mai ricevuto informazioni utili.

Finalmente, circa un’ora e mezzo dopo lo scioglimento della neve una leggera vibrazione percorse tutta la Kwembly. Dondragmer subito segnalò ai suoi uomini che le ruote stavano probabilmente toccando il basso fondale. Tutti avevano comunque pensato la stessa cosa e la tensione cominciò a salire.

Poco o nulla preannunciò loro la fine del viaggio. Un suono dal laboratorio richiamò l’attenzione del capitano, a cui venne riferito che la pressione saliva alquanto rapidamente e che un’immissione addizionale di argon era necessaria per prevenire una possibile depressurizzazione. La velocità non sembrava aumentare, ma le implicazioni del rapporto dal laboratorio erano abbastanza chiare: stavano scendendo più rapidamente. A quanto poteva equivalere la loro velocità orizzontale? Il capitano e il timoniere si guardarono negli occhi, e nessuno dei due trovò il coraggio di porre all’altro questa domanda. Passò altro tempo. La tensione ormai era palpabile, e chele e zampe afferravano il più saldamente possibile sostegni, maniglie e ripari.

Poi, all’improvviso, il silenzio fu rotto da un frastuono spaventoso, e lo scafo curvò bruscamente. Seguì un altro colpo, e la Kwembly si inclinò pesantemente su un lato. Per parecchi secondi il robusto mezzo sembrò lottare contro forze immani per non capovolgersi, e coloro che si erano riparati vicino alla prua la sentirono cozzare ripetutamente e gemere ferita dalle rocce. La nebbia, o forse era spuma ribollente, impediva la vista e rendeva impossibile seguire visivamente le peripezie della caduta. E infine, con un suono secco e metallico e un sobbalzo spaventoso, la Kwemby sembrò fermarsi inclinandosi di sessanta gradi a tribordo: stavolta era incagliata. Gemiti e sfregamenti suggerivano qualche movimento, ma per fortuna quell’incredibile corsa sembrava definitivamente terminata. Per la prima volta, il gorgogliare delle acque che passavano sotto lo scafo inclinato divenne chiaramente udibile.

Dondragmer e l’equipaggio erano incolumi. Per delle creature che consideravano normali duecento gravità della Terra e una sgradita seccatura un’attrazione pari a seicento G, un’accelerazione come quella appena subita non significava nulla: le loro chele stringevano ancora gli appigli più vicini, e le loro zampe rimanevano ben piantate sul pavimento. Il capitano non si preoccupò neppure di sincerarsi delle condizioni dell’equipaggio. Le sue prime parole indicarono che stava considerando le cose da un punto di vista più ampio.

— Equipaggio, a rapporto — urlò nei tubi acustici. — Iniziare immediatamente il controllo esterno del fasciame e segnalare quanto prima le incrinature, le ammaccature, gli squarci e qualsiasi altro danno che possa provocare delle perdite. Personale scientifico: iniziare le procedure d’emergenza e verificare la presenza di infiltrazioni di ossigeno. Biorigenerazione: bloccare il ricircolo atmosferico fino a quando non sia stata verificata la tenuta dello scafo. Scattare!

Apparentemente i tubi acustici funzionavano bene. Difatti non appena Dondragmer terminò cominciarono a echeggiare suoni di risposta. Man mano che arrivavano i rapporti Beetchermarlf si rilassò. Non si aspettava che la struttura e il fasciame della Kwembly offrissero tanta resistenza agli urti e dopo aver constatato che l’atmosfera velenosa di Dhrawn non trovava facile accesso all’interno dello scafo sentì salire di parecchio la scarsa stima che provava per gli ingegneri alieni che l’avevano progettato. Aveva sempre considerato la resistenza e la durata dei materiali artificiali inferiore a quella dei materiali organici e trovava ottimi motivi per continuare a pensarla così. Tuttavia, apparve chiaro una volta terminati i controlli che la Kwembly non aveva riportato danni alle strutture né si erano aperti squarci nel fasciame. Anche in condizioni normali, però, esistevano delle perdite inevitabili in una costruzione che doveva avere delle uscite per la strumentazione e il personale e parecchie aperture per l’equipaggiamento di rilevazione esterno. Ma anche qui i controlli tranquillizzarono un po’ tutti: sembrava proprio che tutto fosse andato per il meglio. Naturalmente, il controllo dell’ossigeno e di eventuali infiltrazioni sarebbe continuato come normale routine.

L’energia non era mancata un momento, ma la cosa non sorprese nessuno. I venticinque generatori indipendenti all’idrogeno, moduli identici che potevano venir sistemati e utilizzati in qualsiasi sezione della Kwembly, erano dispositivi a stato solido privi di parti in movimento se si eccettuavano le molecole del gas che vi veniva pompato. Potevano finire per sbaglio sotto una pressa meccanica senza che ne risultassero minimamente danneggiati.

La maggior parte dei fanali esterni risultavano danneggiati e non funzionavano più, ma sostituirli o ripararli non rappresentava un grosso problema. Alcune luci però funzionavano ancora, e dalla parte del ponte che si trovava a livello dell’acqua era possibile guardar fuori. La nebbia era calata di nuovo e impediva completamente la vista. Con cautela, Dondragmer raggiunse la sezione più vicina alle rocce, e osservò l’agglomerato di macigni arrotondati con diametri fino a venti lunghezze corporee contro cui la Kwembly si era arenata. Poi, usando la stessa cautela, si arrampicò di nuovo fino alla sua piattaforma, attivò la radio e trasmise la comunicazione che Barlennan doveva ricevere poco più di un minuto dopo. Senza attendere la risposta, si girò verso il suo timoniere.